Sette, 6 marzo 2020
Intervista a Ginevra Elkann
«È autobiografico» dice Ginevra Elkann del suo primo film da regista, Magari, scritto con Chiara Barzini, al cinema dal 26 marzo. Per la prima volta (escludendo Vestivamo alla marinara, romanzo di Susanna Agnelli) entriamo dunque dentro casa Agnelli. Entriamo nel luogo e nella famiglia che in molti hanno cercato di raccontare, sbagliando. E che sbagliavano, e che fin qui si è trattato di scempio, ce lo dice questo film bello e doloroso che mai indulge sul privilegio - il privilegio è dato, e noto - piuttosto sulle emozioni. «Le emozioni sono uguali per tutti», dice la regista. Così i tre bambini del film — Alma, Jean, Seba - potrebbero essere Ginevra, John e Lapo, poco importa, perché sopra ogni identità, sono bambini. Senza radici, autosufficienti — loro tre insieme costituiscono il vero nucleo familiare — in un mondo in cui tra piccoli e grandi non ci sono confini, chiunque travalica, tracima. Con questa opera Ginevra Elkann dimostra di essere una regista vera, dall’immaginario unico. Dimostra che il talento è un modo di guardare, una capacità di sentire, a prescindere dalla nascita. Ecco allora che la storia dei tre fratelli costretti a passare un periodo col padre che non vedono da tempo diventa universale. Allegoria perfetta della solitudine dell’infanzia, di quel senso di isolamento uguale per tutti.
Quanto c’è di lei in Alma?
«L’ostinazione di credere in ciò che si vuole. Alma non si limita a sperare, lei è proprio convinta che i genitori torneranno insieme».
La realtà è diversa.
«Conta?».
I tre bambini atterrano a Roma vestiti da neve - piumino, moon boot - ma il padre cambia programma: invece di portarli a sciare li porta al mare. In inglese c’è una parola che indica questa condizione: displacement, non essere mai nel posto giusto. Lei e i suoi fratelli lo siete stati?
«Sono nata in Inghilterra, i miei fratelli in America, abbiamo vissuto in Brasile, Francia, poi di nuovo Inghilterra».
Scuole?
«Sempre in francese. Io parlo meglio il francese dell’italiano. Sogno in francese, conto in francese».
Cos’è l’Italia per lei?
«Io e i miei fratelli subivamo una grande fascinazione per ciò che arrivava dall’Italia, peccato che arrivasse in ritardo. Mentre in Italia c’erano Eros Ramazzotti, Jovanotti, noi ascoltavamo i Ricchi e Poveri, Toto Cotugno».
Colonna sonora del film.
«La vera conoscenza della cultura italiana per me è avvenuta in seguito, grazie a un amico italiano, che mi ha fatto conoscere i film di Verdone e le canzoni di Jovanotti. Insomma, mi ha rimessa in pari. A quel punto sono entrata anch’io negli anni Novanta».
Lingua madre?
«Con i miei fratelli parlavo un misto di francese e italiano».
Come nel film.
«L’essere sradicati appunto».
La sua casa dov’era?
«Quando mi chiedevano di dove fossi, rispondevo Italia, Torino. Nella mia testa casa era quella».
In Italia si sentiva diversa dagli altri bambini?
«C’erano pochi bambini con cui confrontarsi. Passavo le giornate soprattutto con i nonni e con i miei genitori».
Un ricordo dell’infanzia?
«Cambiando spesso Paese e scuola, non ho ricordi precisi. Mio padre dice che fischiavo sempre».
La presenza più importante di quegli anni?
«Miss Brenda, la tata, già tata di mia madre. Era severissima».
Per esempio?
«Se non finivamo quello che c’era nel piatto, ce lo dava da mangiare il giorno dopo».
E voi?
«Lo mangiavamo. Poi però la notte, quando avevo paura, andavo nel suo letto, e lei mi accoglieva. Per dire quanto fosse capace di tenerezza oltre che di severità».
Paura di?
«Vampiri. Ogni sera controllavo dalla finestra. Non andavo mai a dormire col collo scoperto, e m’infilavo la camicia da notte senza togliermi i vestiti. Sapevo che potevano arrivare loro, i vampiri, a mordermi».
Adolescenza?
«Sono stata una ragazzina scomoda».
Nel senso?
«Timidezza, problemi alimentari. Per diventare chi sono, per trovare la voce, ho impiegato tanto tempo. Non a caso il mio esordio avviene a quarant’anni, non a venti».
I tentativi per diventare la persona che è oggi?
«Di sicuro mi sono stati utili mio marito, i miei figli, il lavoro e i gruppi di terapia».
Ovvero?
«Gruppi per la cura dei disturbi alimentari».
Perché terapia di gruppo quando avrebbe potuto permettersi quella singola?
«A parte che ho fatto e continuo a fare anche la singola, il gruppo è di grande sostegno».
Condivisione quindi?
«Per me la scoperta che il malessere era comune, e non solo mio».
Contro l’idea di essere speciale, unica, quale era lei per nascita.
«A 19 anni ho iniziato a viaggiare con le amiche. Zaino, sacco a pelo, budget limitato. Messico, Sud Est asiatico. Dormivo dove capitava».
Qual era la spinta?
«L’amore per il viaggio. La curiosità verso gli altri. Ricordo chiacchierate di ore con persone provenienti da ogni parte del mondo. Mi piaceva ascoltare le loro storie».
L’altro per lei?
«Io provengo da un grandissimo privilegio. Sono diversa, e insieme molto simile a chiunque».
Con il solo privilegio avrebbe mai scritto e girato «Magari» ?
«Il film è autobiografico non nel senso che ci si può aspettare. Niente palazzi, niente fasto. Ecco, se qualcuno pensa di vedere questo, no. È autobiografico nei sentimenti, nelle emozioni».
Oltre alla scoperta della normalità, cosa l’ha portata a questo film, alla donna che è oggi?
«Nell’adolescenza sono stata timida, vivevo guardando la vita degli altri, di mio non sono stata protagonista di niente».
Neppure per i 18 anni?
«Mia nonna teneva molto a festeggiare i miei 18 anni. Avevamo trovato la location, il Museo delle arti forensi a Parigi. Il vestito disegnato da Oscar de la Renta, amico della nonna. Lungo, rosso, lo avevamo deciso insieme».
Poi?
«Io parto, lavoravo come assistente sul set di Anthony Minghella. Parto, lavoro e intanto il ballo incombe. Una mattina mi sveglio e penso: non ce la posso fare».
Motivo?
«Non volevo stare al centro dell’attenzione. Mi sentivo brutta, a disagio nel mio corpo, mi nascondevo. Indossavo abiti larghi, golfoni, in realtà ancora adesso».
Dunque?
«Chiamo la nonna e annullo il ballo».
Reazione della nonna?
«Peccato, ha detto. Nessuna scenata, nessun tentativo di farmi cambiare idea».
Mai avvertito il peso di rappresentare una famiglia importante?
«No, né qualcuno mi ha fatto sentire l’obbligo. Per questo sono riuscita ad avere la vita che volevo, la vita di oggi, stare dentro le cose».
La persona del passato che più le manca?
«Mia nonna».
Eredità della nonna?
«L’amore per il giardino. Ogni giorno in giardino nasce qualcosa di diverso, un regalo infinito. Così l’orto. I miei figli attraverso l’orto conoscono quello che cresce e quello che muore, le stagioni».
A differenza dei bambini del film.
«Quando io e miei fratelli vivevamo in Brasile e venivamo in vacanza in Italia, partivamo che da noi era estate e arrivavamo che qui era inverno. Ci ritrovavamo in aeroporto a maniche corte, mentre intorno la gente aveva il cappotto. Bambini fuori stagione, e fuori posto, ecco chi siamo stati».