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 2020  marzo 06 Venerdì calendario

Intervista a Walter Siti

«Se ci mettiamo dalla parte del virus, questo per lui è un momento di successo: è passato dal pipistrello all’uomo, ha ampliato il proprio areale, ha trovato il sistema per svilupparsi come ogni organismo sogna di fare, che sia micro o macro». A parlare così è Walter Siti, nella sua casa dalle parti del cimitero Monumentale di Milano, nel cui Famedio riposa Manzoni, gran descrittore di peste. Tempi di Coronavirus. In effetti l’innocenza crudele della Natura e il cieco vitalismo, oltre la lotta sociale e quella greco-romana tra amore e morte, sono i temi forti del nuovo romanzo di Siti, che abbiamo letto in anteprima: La natura è innocente. Due vite quasi vere (Rizzoli). Una partita a scacchi con la realtà della cronaca, giocata da Siti con le regole della letteratura: il quasi vere del sottotitolo si spiega così, perché un po’ di fiction/ finzione/falsità è inevitabile, come Siti dichiara nelle note finali; la partita però è vinta grazie all’oscena generosità dell’autore che confessa l’inconfessabile: il desiderio di uccidere la madre, eluso e poi sublimato nell’amore per i culturisti.Il romanzo spara a palle incatenate due storie prese dalla cronaca: Filippo Addamo, che a Catania nel 2000 ha ucciso la madre, di cui era terribilmente geloso; e Ruggero Freddi, ricercatore alla Sapienza di Roma, ex pornoattore gay (col nome di Carlo Masi) ed escort d’alto bordo, vedovo di un principe. Storie intercettate anche dalla tv, che Siti però riscrive mostrandone l’archetipo e come nella società di oggi giri a vuoto: la tragedia greca è senza catarsi, la favola moderna non assicura il lieto fine. Esistere, forse, non serve a niente. Ma non possiamo farne a meno. Eccoci qui. Sugli scaffali di casa Siti c’è una foto grande di Walter da piccolo, una con il padre, e poi, accanto, due cartoline: L’origine del mondo di Courbet e Guernica di Picasso (vista a Madrid con il compagno).
Cosa l’ha spinta a unire in un romanzo storie così distanti? 
«Dopo Bruciare tutto, volevo un libro in cui non parlare di me, scrivere la biografia di un altro, per cui non sprofondare nelle mie zone oscure. Scelsi la storia di Filippo, e solo dopo anche Ruggero, che rappresentava ancora il mio mondo di culturisti, le malie del corpo maschile. Poi però, verso la fine della scrittura, mi faccio una domanda: perché raccontare queste storie assieme? Così nelle ultime venti pagine ho parlato di me, e mi sono costate più dell’intero Bruciare tutto ».
Racconta vite altrui, che però sono la sua, parlano per lei, di lei. Come Emmanuel Carrère. 
«Sì. Mi interessano gli scrittori che raccontano di sé attraverso le storie. Penso a Bret Easton Ellis, con Lunar Park, dove racconta di suo padre come se fosse un horror, qualcosa di simile fa Michele Mari in Leggenda privata. Mi piace quando la letteratura fa davvero la letteratura, cioè accetta che ci siano delle ambiguità consustanziali, e strati coerenti, cioè lo stile al tema, e il tema alla narrazione, epperò sceglie storie che aiutano l’autore nell’andare a fondo di cose che non ha capito di sé; spero poi succeda il contrario, che quelle storie e quella dell’autore rimbalzino sui lettori».
Il passaggio è dall’autofiction alla autobiofiction...
«”Autobiografia appaltata” direi: ho preso le vite di questi due giovani perché frugassero dentro di me con una forza che io non ho più».
Per la fiction il confronto con «A sangue freddo» è inevitabile.
«Sì, quello è il modello del romanzo-verità: ma Truman Capote benché coinvolto, innamorato di uno dei due, non parla mai di sé, narra in terza persona. Io non ce l’ho fatta, ho persino usato i versi alla fine, perché le storie mi portavano dentro di me».
Nel romanzo di Capote, c’erano due assassini quasi alla pari. Qui un matricida e un escort. 
«C’è dissimmetria sì. Con Filippo ero un ascoltatore, uno scriba, per dirla con Giovanni Testori. Mi ha colpito la serenità con cui raccontava le cose. Lì per lì pensavo che evidentemente il carcere l’aveva rieducato. Ma il punto è che all’epoca tutti avevano condannato la mamma. Quando entra in carcere a 19 anni lo applaudono e lo chiamano “caruso d’onore”... perché il delitto d’onore è stato abolito solo 20 anni prima! Pazzesca la risposta del mamma santissima della mafia: capisce che Filippo era innamorato della mamma e gli dice: “Hai sbagliato, dovevi sparargli alle ginocchia, la punivi come era giusto ma non la perdevi”. Lui è stato aiutato dal fatto che non stava uccidendo per sé ma in nome di una tradizione culturale».
Cosa l’ha colpita di più di questa storia terribile?
«Non aver trovato nessun granello di mostruosità. Un mio amico di Catania, poeta, mi diceva: “Non voglio che mi parli di questa cosa. Per me uno che ammazza la madre e riesce a continuare a vivere è incomprensibile”. A me colpiva il fatto che per un po’ Filippo ha vissuto a casa della nonna che non c’era più, ed era a circa 50 metri da dove aveva ucciso la mamma. Diceva sì, mi fa un po’ effetto se ci passo a piedi, ma in motorino no. Poi mi son chiesto: perché non mi fa effetto sentire un matricida che racconta?».
Che risposte sì è dato?
«La risposta più crudele è nel libro: “Almeno lui ce l’ha fatta”».
Sì. Poi la nasconde scrivendo che il matricidio è inutile: le mamme non muoiono mai. 
«In effetti Rosa non muore mai, Filippo continua a parlare con lei».
E sua madre? 
«Nei mesi successivi alla sua morte ho fatto un incubo: che non fosse morta, che non avessero chiusa bene la cassa e lei fosse tornata fuori, da vampiro. Anche in questa casa, non osavo aprire la porta di camera, ero sicuro che lei con i denti aguzzi mi avrebbe aggredito. Certe notti tenevo tutto acceso. Più che il lutto per una madre morta, c’era la paura che lei non fosse morta davvero, benché l’avessi vista».
Nel romanzo, in coda, confessa il suo istinto matricida represso e la connessa natura femminile delle sue passioni omoerotiche. 
«I culturisti erano lei, travestita, con le parti pericolose eliminate. A 30 anni mi chiesi: perché i culturisti e non un bel ragazzo atletico? La risposta è stata: mi interessano i seni e il culo. Un culturista è pettorali, culo e cosce. Una mamma 2.0».
Più Fellini o Tinto Brass? 
«Milo Manara! Le sue donne son tutte tette e culi. All’epoca mi piacevano Rosanna Schiaffino, Gina Lollobrigida, Ava Gardner...»
Ha avuto storie eterosessuali? 
«Al liceo. Mi sentivo così ipocrita. E poi all’università. Nel 1967 c’era un’occupazione alla Sapienza, avevo 20 anni, rimasi a dormire lì; un ragazzo che mi piaceva molto inizia ad amoreggiare con una ragazza, si spogliano e lo fanno, allora un’altra mi si avvicina e si dà da fare. Io ho scopato lei guardando lui. Era rimasta incinta. Avrei anche potuto diventare padre, è un piccolo rimpianto. Ma ora che ci penso dalle storie di questo libro salta fuori la quasi totale assenza di padre».
Rimpiange la paternità? 
«Non rimpiango tanto la paternità: il mio compagno ha 24 anni meno di me e l’altro ne aveva 17 meno, sono abituato a figli sostitutivi. È buffo, perché passo per cattivista così getto la maschera: mi piacerebbe avere dei nipotini che girano per casa. Ma è troppo tardi».
A proposito di maschere. Oltre a quella di Filippo, c’è quella di Ruggero: pornoattore gay e culturista. Non aveva detto basta? 
«L’oggetto è lo stesso, ma lo sguardo è opposto, per rispondere a una domanda, dietro tutti questi entusiasmi che mi hanno retto per 50 anni: loro come sono davvero? Ho sempre vissuto la favola del culturista che cancella il mondo facendosi sfiorare, allora vediamola dall’altra parte. In Scuola di nudo inizio con filmini pornografici che mi sembravano l’Eden, qui invece c’è il backstage, ci sono i professionisti del porno. Non racconto la bellezza ma la rapacità, la meschineria, la fragilità, l’intelligenza, la fame di affermazione».
Denaro e lotta di classe sono temi raccontati con disagio da molti scrittori italiani, non da lei, che scrive: i soldi sono poco importanti solo per chi non ha mai affrontato l’inconscio.
«Sento ancora molto forte l’odio di classe. Ho dovuto ottenere pezzettino per pezzettino quel minimo benessere che ho, la sicurezza in me stesso. Sin dal liceo. I miei compagni bravi come Marco Santagata avevano un papà con una sua libreria; io dovevo andare in biblioteca e poi non potevo parlare di quei libri con i miei, che ne capivano! Ero solo, invidiavo i padri degli altri».
Però adesso è uno scrittore affermato, nel 2013 ha vinto anche il premio Strega.
«Anche lì. C’è il premio, segue cena. Eravamo a un tavolo dove io in teoria dovevo essere il festeggiato, avevo vinto. I pezzi grossi di Mondadori e Rizzoli parlavano del futuro della casa editrice e io mi sentivo tagliato fuori. Che ci faccio qui? Io uso il romanzo come piccola vendetta, sto lì a guardare da sotto, defilato, un mondo che per me è ancora la festa che vivono gli altri e dove non mi hanno invitato: guardo la festa e cerco di descriverla con questa malignità che è un odio di classe trasfigurato e mascherato».
Il suo romanzo sfida la tv, prendendo storie che sono transitate anche da lì. La letteratura non dovrebbe lasciare agli altri media le storie che interessano il grande pubblico. 
«Quando Ruggero è andato da Barbara d’Urso ho detto: “Non parlare del principe, ce lo teniamo per il libro”. Altrimenti alcuni avrebbero detto che lui sfruttava un vecchietto, altri che il principe sfruttava i giovanotti, Ruggero avrebbe detto che lo amava, ma non ci sarebbe stato tempo per analizzare i complessi meccanismi d’amore. Il talk show non ha tempo per la profondità, solo spettacolo, conflitti».
Lei è un esegeta della D’Urso. 
«Vorrei scrivere una demonologia di Barbara D’Urso: quando Mefistofele si presenta al Faust di Goethe dice di essere una parte di quella forza che incessantemente vuole il male e opera incessantemente per il bene. Lei è il contrario, vuole incessantemente il bene, è gayfriendly, contro la violenza, ma opera incessantemente per il male, mettendo tutti uno contro l’altro».
L’altra signora della tv, presente nel libro, è Franca Leosini, che intervistò Addamo per «Storie maledette».
«Leosini ha inventato una tv che è una succursale della narrativa: trasla la narrazione che ha in mente in linguaggio tv, dove devi semplificare. Ma lei, che scrive tutto, non rinuncia allo strumento della letteratura, cioè la psicologia. D’Urso è Mefistofele di Goethe, anche se è tutta dialettica, oratoria, Leosini è un Simenon che si è letto Gadda».
Lei si è immedesimato in Filippo, il matricida. Se avesse ucciso suo madre, sarebbe stato intervistato da Leosini? 
«Non riesco a immaginarlo perché se avessi fatto quello che non sono riuscito a fare non avrei mai detto di sì alla Leosini. Mi sarei chiuso in un silenzio perenne. Ho una certezza inconscia: dopo un gesto così non avrei potuto non solo scrivere, ma neanche dire una parola».
In una nota del romanzo ha scritto che questo sarà l’ultimo. 
«Se in Bruciare tutto ho aggredito dentro di me il meccanismo dell’infanzia, come se nichilisticamente avessi condannato il mio me stesso bambino, qui addirittura condanno la maternità, cioè l’essere al mondo: dopo cosa resta? Non ci sono personaggi positivi, è il mio libro più disperato. Così l’ho pensato come l’ultimo, in cui affrontare il nodo più profondo. Ora però sento un vitalismo nuovo e sto studiando queste forme di narrazione dei nati dopo il 2000, come TikTok, mondi sconosciuti. C’è il rischio del ridicolo, lo so, ma non mi sono mai tirato indietro di fronte al ridicolo».