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 2020  marzo 06 Venerdì calendario

Paolo Cognetti e il coronavirus. Intervista

Siamo invitati a stare da soli. A cercare di guarire nella solitudine. Per Paolo Cognetti invece la solitudine è la salvezza, la compagna quotidiana. Ha da poco superato i quarant’anni e ha trascorso buona parte dei suoi ultimi vent’anni tra i boschi, sul fianco e sulla cresta delle montagne che dividono l’Italia dalla Francia. E il suo successo di scrittore (Premio Strega 2017 con, appunto, Le otto montagne) l’ha trovato per merito di quella solitudine così invocata.
“Vivo molti mesi all’anno col mio cane in una baita a ottanta chilometri da Aosta. Ma non faccio l’eremita. La montagna, che ho scoperto da bambino, è il luogo che ha dato senso alla mia vita, che mi ha fatto scoprire mio padre. La montagna è stata il mio destino. Potevo vivere come gli altri, ho scelto la strada forse più difficile, ma a me più vicina.
Lei è milanese. E Milano è la città del fare.
Ora mi trova a Milano. Vivo questo tempo dell’attesa, e osservo la città dove sono nato, la vedo mesta, stralunata, ingobbita. L’idea che la tua vita sia un incessante fare, e il fare, cioè costruire, pagare, guadagnare, disperarsi di lavoro, sia sospeso, bloccato per un motivo superiore, fa venire le vertigini. Milano oggi è una città capovolta, incredula, fragile e impaurita.
L’elogio della solitudine potrebbe aiutarla a guarire.
Sapere stare da soli è una virtù. Sapere osservare. Sapere fare in modo che nella vita le amicizie possono essere poche ma più profonde. La montagna ti educa alle relazioni verticali, quelle più vere perché più profonde, dunque più sincere. Non si fanno feste e non c’è tanta gente sui monti. Ma quelle amicizie hanno radici indistruttibili. Il contrario del circuito metropolitano: un vocio ininterrotto e rumoroso. Incontri tanta gente, troppa. Ma chi conosci veramente?
Lei ora è a Milano non sui monti.
Sono qui, è la mia città. Faccio lunghe passeggiate, mi siedo al bar e scrivo. Osservo col mio cane quel che vedo: la fragilità, la disabitudine a questo tempo sospeso, all’attesa. Sì, non sappiamo convivere con l’attesa.
L’ansia non rende felici, l’angoscia non procura equilibrio.
È anche una questione di attitudine, di preparazione, di scelte. Io ho scelto una vita diversa, rischiando naturalmente tanto. Ho da poco conosciuto il successo che significa anche un po’ di tranquillità economica. Ma sapevo che il bosco era il mio compagno di vita, la mia pratica quotidiana. Il confidente e il confessore.
Noi invece temiamo la solitudine.
Vedo che tanti milanesi si sono adesso rifugiati in montagna, dalle mie parti. E vivono come sfollati, come reclusi. Come se quella natura così maestosa non comunicasse nulla.
Di cosa abbiamo bisogno oggi?
Di grandi filosofi, di grandi pensatori. Il progresso tecnologico è stato imponente, quello scientifico uguale. Ciò che manca, che è mancato e continua a non vedersi all’orizzonte, è poter fruire di un pensiero che ci faccia scoprire la passione, ci faccia misurare la vita, il suo senso, la sua dimensione.
Il virus misterioso e cattivo può essere in qualche modo anche educativo.
Almeno ci impone di cogliere il senso vero del dramma, di capire il limite della nostra vita, i bisogni del nostro corpo. Quando succede una disgrazia siamo sempre costretti a riflettere sulla nostra condizione. Spererei che ci impegnassimo almeno alla riflessione.
Dovrebbe piacerle Milano adesso che è più rilassata.
Invece no. Non è questo il suo volto. Non è rilassata, è spenta, le manca quell’energia quotidiana. Io ho amato tanto New York per la vitalità enorme, quel senso di futuro, quel crocevia umano. New York mi è parsa come dieci Milano messe insieme. Abito nel quartiere cinese e i cinesi a Milano hanno una lunga tradizione. Ora sembrano scomparsi. Offesi dal nostro atteggiamento, hanno chiuso le serrande. Spariti dalla circolazione. È una perdita grave, un colpo d’occhio che fa rilevare l’esatta dimensione di quel che ci è accaduto.
Milano così operosa ha chiesto ossessivamente e anche un po’ infantilmente di tornare al lavoro, di riaprire tutto e subito. L’economia, i soldi avanti a ogni altra considerazione.
È più il documento di una fragilità psicologica, di un dissesto nell’equilibrio. Fare è l’unico verbo che si conosce e si coniuga. Perciò è stato come un’arma di difesa, un riflesso condizionato. Se ci rimettiamo in moto anche il virus sparirà. Avremmo bisogno di osservare e prima ancora di pensare. Invece, e un po’ mi stranisce questa considerazione, non sembra che il pensiero sia necessario. Rendere ipercinetica la vita non significa renderla più felice. Non è che stai bene se allo scoccare delle 17 del venerdì parti per il fine settimana. Se da qui ti sposti lì non è detto che la felicità ti venga dietro come fosse una roulotte.