la Repubblica, 6 marzo 2020
Bruno Barbieri si racconta
La cucina per lui è più di una passione, è un destino. Perché quando fin dai primi ricordi d’infanzia il cibo permea le tue giornate, poi è naturale seguirne le tracce. E oggi Bruno Barbieri festeggia 40 anni di carriera. Il grande pubblico lo ha conosciuto con Masterchef, di cui si è conclusa proprio ieri sera la nona edizione, ma da decenni rappresenta un riferimento per la cucina italiana attraverso esperienze rivoluzionarie come il ristorante Il Trigabolo di Argenta (FE) negli anni 80. Nato nel 1962 a Medicina, vicino a Bologna, era cuoco in pectore già da bambino, grazie a nonna Mimì. «Oggi è di moda raccontare della passione nata vedendo ai fornelli la nonna e la zia, ma una volta questa frase aveva un altro valore», confida lo chef. «In campagna il cibo si vedeva produrre, nascere e crescere. Io vivevo in un mondo gastronomicamente fortunato: a quattro anni mangiavo le tagliatelle coi tartufi. Mio nonno li raccoglieva, mia nonna faceva la pasta fresca talmente bene che la vendeva alle trattorie in città».La vita era scandita dai ritmi della natura. La raccolta all’alba dei fiori di zucchina, l’accudimento degli animali da cortile, la sveglia alle quattro del mattino per veder nascere un vitello.
«Esperienze che ti forgiano. È chiaro che non avrei potuto fare altro». Così, pochi giorni fa durante le riprese della trasmissione di cui è protagonista, 4 hotel su TV8, ha stupito tutti mostrando il talento nel mungere una mucca. «Che volete che sia? L’ho imparato da bambino», si è schermito.
Il percorso scolastico quasi naturalmente passa dall’alberghiero: lezioni al mattino e pratica la sera. Una esperienza che segna il suo cammino.
«Ho lavorato tanto da Zì Teresa, nella riviera romagnola, dove nessuno dei miei compagni voleva andare perché si faticava. Pulivo anche 7-8 casse di calamaretti a sera. Mi sono fatto le ossa. Una sera venne ad aiutarci un amico dei proprietari che era “maestro di casa” di una compagnia di crociere di lusso. Intuì la mia dedizione e mi offrì di imbarcarmi. Era una bella occasione perché le compagnie di crociere erano posti dove si cucinava alla francese, come nei grandi alberghi. Io avevo 17 anni, ero alle prime armi, sapevo fare la besciamella e la salsa bernese: ma chi l’aveva mai preparata per centinaia di persone?».
La nave non è solo una palestra. È il luogo dove nasce una collaborazione che farà la storia della ristorazione italiana. Lì conosce Igles Corelli, diventate amici. E sarà lui a proporle di andare ad Argenta, nella bassa Ferrarese, lontano da qualsiasi rotta gastronomica. Così iniziò la saga del Trigabolo. Come è stata quella esperienza giovanile?
«Una rivoluzione. Quando in Francia facevano ancora la Lepre à la Royale , che tra marinatura e cottura prevede 48 ore di preparazione e chili di fegato grasso, noi avevamo l’ardire di portarla cruda in tartare col suo sangue. Facevamo follie per amore della cucina. Non guadagnavamo, ma usavamo tutto per il ristorante. Quando a Firenze la Ginori faceva le svendite, noi partivamo all’alba per andare a comprare vecchi pezzi unici. Lo stesso facevamo per i prodotti. Andavamo a pescare e il pesce diventava soufflé, crema. Seguivamo le battute di caccia ed evisceravamo all’istante decine di starne. Gli altri cuochi hanno così iniziato a fiutare che c’era in atto un cambiamento e venivano a mangiare da noi, testimoni di quella rivoluzione. Ricordo ai tavoli un non ancora famoso Ferran Adrià o il grande Alain Senderens. E poi venne Henri Gault, fondatore della famosa guida francese. Noi eravamo consapevoli che stavamo cambiando le cose. Più che una brigata eravamo una setta. Sempre tutti insieme, ovunque. E non seguivamo alcuna corrente: noi eravamo la corrente».
La cucina, i prodotti prima di tutto. Forzando le regole, anche quelle dell’economia. Così, nel ’93 ecco la chiusura improvvisa del locale. Con tanto di leggenda di una terza stella Michelin già assegnata ma troppo tardi. Come si riparte?
«Chiuso il Trigabolo, sono approdato alla Grotta di Brisighella, in provincia di Ravenna. Funzionò bene: avevo un menu fisso che cambiav a tutti i giorni. Macinavamo cento coperti e in sei mesi è arrivata una stella. Poi la Locanda Solarola di Castel Guelfo, una vecchia casa di campagna di fine 800 in provincia di Bologna: due stelle Michelin in due anni consecutivi, grazie anche alla mia brigata. Sette anni dopo, la scelta di trasferirmi a Verona, in una villa palladiana, con la famiglia Montresor. I veronesi mi diedero sei mesi di vita. Sono stato undici anni e ho preso due stelle».
La tentazione di provarci fuori dall’Italia alla fine ha il sopravvento con lo sbarco a Londra: quartiere alla moda, un locale di super design con un investimento da un milione e 700 mila sterline, solo prodotti italiani importati. Un’avventura finita male. Perché?
«Eravamo il ristorante “posh” (fine, elegante, ndr ). Ma i costi erano troppo elevati, noi forse eravamo troppo avanti e troppo rigidi. Un giorno arriva la critica Fay Maschler: in quattro si dividono un piatto di Pennoni di Cicciano con le verdure. Nella recensione scrive che dovrei cuocere di più la pasta. Mi partì il neurone, le scrissi spiegando il senso della pasta secca per noi italiani. Di queste critiche ne ricevevo tante, ma io ero intransigente. La poesia però non era sufficiente. Oggi certo saprei gestire le cose diversamente».
Nel frattempo è arrivata la tv, “Masterchef” ma anche “4 hotel” e da poco la conduzione di “Cucine d’Italia”. È diventato un personaggio popolare ed è stato un successo. Ci credeva?
«È andata bene perché non mi sono dovuto inventare un personaggio. Ho cercato di trasmettere la mia passione e le mie conoscenze. Non si ha successo perché si è in tv, ma si funziona in tv se dietro c’è un percorso».
I suoi modi di dire diventano tormentoni...
«Sì, è vero, come “mappazzone”. Ovviamente non l’ho inventato io, è un termine bolognese per indicare un piatto troppo abbondante. Ora è diventato popolare e lo usano tutti».
Che cosa è cambiato di più in questi 40 anni nella cucina italiana?
«Sono cambiate tecniche e pensieri, e la materia prima. Ma spesso più che novità sono ritorni: come il rispetto della stagionalità o il non sprecare. Poi la cucina oggi è più raffinata e si è capito che il cuoco deve esprimere la sua personalità. Se sai metterci te stesso, dopo 40 anni di lavoro sei ancora riconoscibile. Vissani, per esempio, ha un’anima gastronomica che nessuno può mai scordare. E i giovani cuochi italiani lo stanno capendo».
E come è cambiato Barbieri?
«Come cuoco devo molto ai giornalisti che hanno parlato di me, ai critici che hanno premiato i miei locali, ma finalmente sono arrivato a un punto in cui mi godo la libertà. Posso dire che sono un uomo libero. Non devo più mettermi in discussione. Dopo tanti anni ho fatto esperienza, ho girato per il mondo, ho raccontato storie, creato tendenze, scritto libri, e non mi sento più sotto esame. Dopo 40 anni di lavoro voglio vivere in modo libero, fare solo quello che mi piace fare».
Il suo ultimo libro si intitola “Domani sarà più buono”. La lotta allo spreco è la sua nuova missione?
«Il rispetto delle materie prime è un cardine d’innovazione per il futuro. È una lotta giusta, quella allo spreco, e non solo perché eticamente il cibo non si butta mai, ma anche perché bisogna portare rispetto verso coloro che ogni giorno, con sacrifici, cura e dedizione, fanno in modo che sulle nostre tavole arrivino prodotti di qualità. Sì, per gli chef la nuova sfida è la sostenibilità».