In dieci anni la Lehman Trilogy è passata dal palcoscenico di un piccolo teatro di Rubiera in Emilia Romagna al sold out di Broadway. Domani il testo di Stefano Massini esordisce al Nederlander Theatre di Manhattan, con la regia del premio Oscar Sam Mendes, l’adattamento di Ben Power e la benedizione del primo posto nella classifica di Time . Lo stesso spettacolo che dopo aver conquistato pubblico e critica a Londra da Broadway (fino al 28 giugno) transiterà a San Francisco e Los Angeles. Il sogno americano — cuore della Trilogia — non potrebbe avere migliore rappresentazione plastica.
Tra Rubiera e Broadway infatti si annoverano un numero «non più quantificabile» di copie vendute, traduzioni in trentadue lingue tra cui, ultimo, il farsi, una carrellata invidiabile di premi nazionali e internazionali, rappresentazioni dalla Gran Bretagna al Senegal, dalla Spagna alla Finlandia e domani dalla Corea al Giappone e chissà dove altro. Senza dimenticare l’allestimento al Piccolo teatro di Milano nel 2015 diretto da Luca Ronconi.
Insomma, prima o poi qualcuno dovrà scrivere il metaromanzo del “fenomeno Lehman” il cui interesse non è solo nel successo di un autore italiano che nel 2010 aveva poco più di trent’anni, ma nel fatto che questa è la storia di un triplo azzardo. Perché Massini, nel 2008, mentre il mondo assiste attonito alla sfilata degli impiegati Lehman Brothers che portano via gli scatoloni dagli uffici della Settima Avenue, invece di accodarsi a quelli che condannano i banchieri, decide di andare alle origini della loro storia, raccontando l’ascesa dei tre fratelli ebrei di origini tedesche, fondatori della banca di affari, sbarcati in America a metà Ottocento. Perché invece di affidarsi a una più facile narrazione in prosa sceglie un poema in versi. Perché nel tempo delle fiction e delle serie tv scrive un’opera teatrale. Insomma, andando contromano, Massini trasforma una materia hard come il capitalismo in un fenomeno pop.
«Ero giovane e non avevo niente da perdere. I Lehman sono stati una grande palestra espressiva, per questo mi commuove il loro decimo compleanno. È vero, si è trattato di un azzardo, ma io sono claustrofobico, non mi si deve inscatolare dentro un genere perché il primo istinto è di scardinarlo. E questo ho fatto con la Trilogia».
Potevi scrivere un testo di denuncia e invece hai finito per renderci simpatici i banchieri…
«Quello che mi interessava era l’umanità al centro della vicenda. Chiarisco con un aneddoto. Era il 2009 e venivo dal successo di Anna Politkovskaja, testo fortemente improntato alla cronaca. Volevo raccontare il crollo del sistema bancario americano e pensavo di seguire quell’esempio, quando, durante una pedalata in bici passo in un paesino toscano dove era in corso un funerale. Mi fermo all’edicola e sento alcune persone parlare del morto: era l’ultra centenario maestro elementare che aveva educato intere generazioni di ragazzi. La gente ricordava aneddoti che mi sembrarono belli, soprattutto mi fecero capire che la mia narrazione doveva riguardare la vita e non la morte. La storia dei Lehman con tutta la loro umanità e non la loro caduta».
L’atto fondativo di una saga familiare, ma anche del capitalismo americano…
«Esatto, la grande epopea di una famiglia che si è distinta per la capacità di interpretare i bisogni prima che fossero percepiti. Per esempio: loro capirono prima di tutti che nel Novecento delle nevrosi il tabacco avrebbe avuto fortuna e quindi investirono in tabacco. E poi fecero lo stesso con il cinema, i computer. Ovviamente questo non ha impedito degenerazioni di cui io rendo conto in modo critico, ma senza puntare il dito».
Basta a spiegare tanto successo?
«In parte credo di sì e in parte credo anche per la corposità dell’opera.
Nell’era delle serie tv chi va a teatro si aspetta un grande racconto epico. E la Trilogia è proprio questo. Poi c’è una frase che mi ha detto Sam Mendes una volta a Londra e che spiega bene la globalità dei Lehman».
Che frase?
«Mi ha detto: “Caro Stefano, questa è un’operazione totalmente meticcia: è la storia di immigrati ebrei aschenaziti tedeschi che vanno a cercare fortuna negli Stati Uniti. Ed è una storia raccontata da un italiano che la consegna a un regista di origini portoghesi”. La globalizzazione tanto stigmatizzata ha anche i suoi lati positivi…».
Ci si aspetta che il prossimo passo sia una serie tv o un film…
«No, per ora la Trilogia deve concludere il ciclo teatrale. Il modo di procedere nel mondo inglese è preciso e per gradi. Questa tournée tra New York, San Francisco e Los Angeles, servirà a testare il grande pubblico americano. Pensa l’eco che può avere a New York, a pochi metri da Wall Street, la blasfemia di un premio Oscar che porta in scena la storia del capitalismo lontano dagli stereotipi del ghigno con il dente canino che brilla come nei cartoni animati. Fino ad oggi Hollywood ha raccontato la finanza con personaggi come Gordon Gekko o il “lupo di Wall Street” dipinto da Scorsese».
Sam Mendes ha comprato i diritti cinematografici?
«No, solo quelli teatrali».
Prima dell’allestimento di Mendes c’è stato quello al Piccolo Teatro diretto da Luca Ronconi scomparso cinque anni fa. Due spettacoli molto diversi...
«Sì, Ronconi ne ha fatto un grande apologo sul tema del tempo e delle radici. Mi ripeteva: “Questa è la storia di alcuni immigrati il cui bagaglio religioso va dissolvendosi non in favore del nulla, ma in favore di un cambiamento. Cessano di essere ebrei aschenaziti e diventano sacerdoti del capitalismo”. Una interpretazione geniale, la sua e una versione del testo alla quale sono molto affezionato».
E la versione di Mendes?
«Tre soli attori, una scenografia scarna, un unico spettacolo del quale colpisce l’aspetto divertente. Ha sfruttato le possibilità dell’inglese dando spazio ai diversi accenti degli ebrei immigrati. Nella mia storia ci sono tedeschi, ma anche greci, ungheresi, ci sono le diverse classi sociali ognuna con un proprio timbro, c’è l’yiddish. Gli attori si sono divertiti a giocare con la lingua e infatti a Londra il pubblico rideva».
A dieci anni dalla prima rappresentazione in teatro quindi quale è il bilancio?
«Direi che lo spettacolo è diventato qualcosa di inimmaginabile. E poi è un meccanismo che fa da traino a tutto il mio lavoro. Per dire: a Broadway, il 26 marzo, si svolgerà la prima ufficiale della Trilogia, mentre il 25 alla Comédie française di Parigi una nuova versione di “7 minuti” debutterà. A migliaia di chilometri di distanza vanno in scena due storie che parlano di economia con sguardi totalmente diversi… È un caso, ovvio, ma è anche uno degli effetti del fenomeno Lehman».