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 2020  marzo 06 Venerdì calendario

Dietro le quinte di Masterchef

Chi ha partecipato da concorrente a Masterchef è difficile che finisca a fare comparsate nei salotti televisivi, ormai divenuti la realizzazione materica degli incubi felliniani, oppure venga chiamato ad esprimere la sua opinione sul coronavirus. I concorrenti di Masterchef non sono animali della giungla televisiva, luci esagerate e parole al vento, ma persone che usano quel treno luccicante solo per assecondare la propria passione o il proprio desiderio di cambiare vita. Chi si sottopone all’esame dei giudici chef, non aspira a finire al Grande Fratello, vuole aprire un ristorante. Vuole mettere alla prova il suo talento, trovare il lavoro che sogna. 
Mi dice Paola Papa, a capo degli autori: «Scremiamo migliaia di richieste con una prima selezione telefonica, poi i prescelti portano un piatto da loro preparato, che verrà giudicato da uno chef, e contemporaneamente affrontano un colloquio con uno degli autori. Cerchiamo persone e cuochi, non solo l’uno, non solo l’altro». 
I tre giudici, chef stellati, sono stati quest’anno Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e, new entry, Giorgio Locatelli. 
Cannavacciuolo, il Porthos dei giudici, racconta che il padre, anch’egli cuoco, sperava che il figlio diventasse geometra o dentista. «Le prime cose che mi ha detto erano tese a farmi odiare la cucina. Ma a 14 anni mi sono impuntato e allora lui mi ha affidato a due chef. Tipi pericolosi che, rispondendo a lui, cercavano di farmi passare il sogno. Ma non passava. Allora papà mi ha detto solo una cosa: “Se vuoi fare questo lavoro sappi una cosa. O lo fai bene o lascia stare”. Poi mi mise in mano la valigia e mi disse di girare il mondo e di imparare. È quello che ho fatto». 
Come fece un ragazzo di Bologna che si imbarcò sulle navi da crociera e un giovane della provincia di Varese che, finito il militare, partì per la Svizzera, l’Inghilterra, la Francia. 
Questi tre ragazzi degli anni Ottanta, dominati dal sacro furore di una passione, si mettono oggi in piedi davanti a delle persone animate dal loro stesso amore. E le valutano. Non è facile, in questo tempo di crisi dell’autorevolezza, che i giudizi, anche duri, vengano accettati. Tutti valiamo uno, si dice, e figurarsi se il palato di un altro può essere migliore del mio. Invece i tre giudici di Masterchef sono amati e rispettati. In ragione della loro indubitabile e certificata competenza, ma, nondimeno, per effetto del carattere, della schiettezza, della «verità» dei loro comportamenti con i concorrenti. 
Già, ma è tutto vero? I giudizi degli chef sono condizionati in qualche modo dagli autori? Dice Barbieri: «Non avrei mai messo la mia faccia in un programma in cui non fosse raccontata la verità». Locatelli: «Il giudizio lo lasciano completamente a noi. La produzione non interferisce. È una competizione sana». Paola Papa dice: «A Masterchef è difficile mentire. È una gara, con delle regole. E la prima è l’autonomia dei giudici». 
Per Cannavacciuolo la cucina è molto più della bontà di un piatto. «La buona cucina non esiste senza una buona agricoltura. Ci sono ancora pochi campi coltivati e troppi abbandonati. In Italia ogni campanile ha una sua specialità, figlia della terra e del genio dei contadini, dei cuochi, delle famiglie che, nella storia, hanno inventato il modo di mangiare corrispondente alle possibilità del tempo». Per Locatelli «stiamo facendo enormi passi in avanti. Conoscere altre culture alimentari ci ha aiutato. La nostra cucina, all’estero, era figlia dell’emigrazione. Era noi contro loro. Un’identità chiusa e dignitosa che si cercava una nicchia. La tavola è invece il luogo della condivisione. Si può mantenere un’identità forte, come la nostra, anche nel cibo. Un’identità multipla: la stagionalità e la regionalità sono una ricchezza. E ci si può aprire all’arcobaleno di gusti e meraviglie che la natura, insieme al talento e alla fatica degli uomini, crea in ogni parte del mondo». Barbieri aggiunge: «In Masterchef noi celebriamo la storia del cibo, la sua bellezza, la sua multiculturalità. In un tempo di barriere e muri il cibo è un ponte di civiltà e di conoscenza. In Italia noi siamo favoriti. Natura e storia ci hanno consegnato una grande fortuna, sulla quale siamo seduti. Noi spesso inconsapevoli, gli altri innamorati persi del nostro Paese». 
Masterchef è registrato con molto anticipo. Come mi dice Stefania Rosato, la curatrice del programma, realizzato con Endemol Shine Italy: «Il programma sembra un film. Molto è lavoro di montaggio. Le decine di persone che lavorano costruiscono la ragnatela televisiva e umana che poi il montaggio racconta». 
Masterchef va in onda mesi dopo. Questo fornisce due vantaggi. Il primo è che i concorrenti non hanno la reazione immediata del pubblico e quindi non mutano i loro comportamenti seguendo impulsi esterni. La seconda è che il programma non viene realizzato con l’angoscia della ghigliottina del mattino dopo alle dieci, quando arrivano i dati Auditel. 
Questa struttura produttiva fa sì che il programma possa avere una singolare relazione con il tempo. Infatti lo spettatore è portato in una dimensione in cui la linearità temporale è alterata, ad esempio, dalle interviste fatte agli stessi concorrenti durante le prove. Come se chi agisce fosse anche la coscienza dell’azione. Come se il tempo si sospendesse e avesse un «altrove». 
Cannavacciuolo si diverte molto quando gli dico che lui e Barbieri sembrano una coppia picaresca. Uno grande, l’altro piccolo. Uno del sud, l’altro del nord. Locatelli, sembra quello «normale», come Zeppo nei fratelli Marx. Ma non con un ruolo da «spalla». Anzi, il suo arrivo ha dato al programma una freschezza particolare. Parlando con loro ho capito che la stima e l’amicizia non sono finzione televisiva, ma reali. 
Così Porthos, Athos e Aramis hanno conquistato ascolti da record e consenso social alle stelle. 
E i concorrenti? Non sono dei fighetti. Hanno belle storie, problemi anche seri e passione sincera. Marisa faceva l’infermiera e ha lasciato il suo lavoro prima di Masterchef, a cui è arrivata quasi per caso. Quando il programma è iniziato aveva gli occhi pieni di malinconia. «Era un momento difficile, per me. La cucina mi spinge a una massima concentrazione. Mi fa mettere a posto i pensieri. Una specie di terapia. È un po’ come una meravigliosa fuga in un luogo pieno di passione. Perché la cucina, che ho imparato da mia nonna, è essenzialmente un amore. E a Masterchef ho imparato a non fermarmi al primo ostacolo. Ora so quello che voglio fare nella vita». Maria Teresa si è ritagliata un ruolo difficile. Parlava schiettamente, talvolta duramente. Era la «dura» del gruppo. Un personaggio interessante. Con un risvolto struggente: «La mattina della finale mi sono svegliata sentendo che ero incinta. L’ho detto a mio marito. Ma non ho voluto fare il test subito. Lo sentivo, ma non ho cercato di saperlo perché non volevo in nessun modo che questa mia gioia entrasse in relazione col programma, tanto più in modo strumentale». 
Le dico che la sua «antipatia» nel corso del programma ha mostrato le sue radici profonde e si è tramutata, almeno per me, nel suo opposto. 
«La vita mi ha spinto ad indossare una corazza, con la quale convivo. Quando i mei si sono separati siamo rimaste tre donne, in casa. Mia madre ha protetto me e mia sorella come poteva. Spingendoci a ottenere sempre il meglio, ad andare costantemente oltre il nostro limite. È stata esigente e questo a scapito di carezze, abbracci, apprezzamenti che rafforzassero l’autostima. Poi sono venuta a Milano, da Cerignola, ho studiato, preso la specializzazione mentre lavoravo. Ora sono dirigente in una multinazionale, mi sono fatta strada tra gli uomini, non è stato facile, anche grazie alla corazza. Sono felice di Masterchef. Ora la mia priorità è il bambino. Ma la cucina, passione vera, mi aspetta. È una sfida, un’altra, che mi piacerebbe affrontare. E guardi che, alla fine, devo ringraziare mia madre. Che mi ha insegnato a non accontentarmi mai». 
Antonio è il campione. Quando è stato proclamato ha fatto una sorpresa al suo compagno Daniel. Intanto, come ha fatto a vincere? «All’inizio ero teso, impaurito. La pressione era tanta. Tornavo nella stanza e piangevo, la sera. Poi Daniel mi ha fatto capire che se anche avessi lasciato la gara la mia vita non sarebbe cambiata. Sarei tornato com’ero, dov’ero. Aveva ragione. Da quel momento tutto mi è sembrato leggero, lieve. Mi sono divertito. Non avevo nemici, ho conosciuto persone belle. Non so cosa cambierà con la vittoria. Il mio sogno è aprire una locanda di qualità in Costa Azzurra. Prima di decidere di chiedere a Daniel di sposarmi, offrendo l’anello come ai vecchi tempi, ci ho pensato molto. Non avevo deciso di farlo. Ma ho tenuto l’anello in tasca per tutta la finale. Non amo l’esposizione della propria vita in tv, so che c’è un po’ di spregiudicatezza e strumentalità. Per questo ero indeciso. Ma dopo la proclamazione erano tutti così vicini, così affettuosi, che mi è sembrato fosse il momento e il luogo giusto per chiedere a Daniel di sposarmi. E c’è un motivo in più. Era un momento speciale per me. Volevo lo fosse anche per lui». 
Gli chiedo come ha imparato ad amare la cucina. «Mio padre è morto cinque anni fa, all’improvviso. Ancora faccio fatica ad accettarlo. Lui e mia madre erano operai. Io sono cresciuto con mia nonna che quando tornavo da scuola mi preparava i tortellini per pranzo. Poi lei è morta, avevo sette anni. E mi sono dovuto arrangiare. Mia mamma mi lasciava le cose preparate, lei era in fabbrica, ma la pasta dovevo farmela da solo. E mi piaceva. La sera, quando i miei tornavano dal lavoro, gli facevo trovare la tavola e il cibo pronti. Ed ero felice».