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 2020  febbraio 28 Venerdì calendario

Su "Tehran girl" di Mahsa Mohebali (Bompiani)

«Mi sento viva a metà. Respiro, ma una parte di me si è spenta, grida, è in lutto e arrabbiata. È uno strano miscuglio, vero?». Mahsa Mohebali è nel suo studio a Teheran, la sua città, dove sta lavorando a una sceneggiatura. Scrittrice iraniana tra le più conosciute a livello internazionale, non ha mai represso la sua voce, ma soprattutto la sua scrittura, nonostante la censura. Il destino del suo Paese sembra inevitabilmente intrecciarsi con la sua vita. «Ogni volta che rimetto piede in Iran dopo essere stata all’estero, vengo assalita dall’ansia che finché vivrò non potrò più uscire. Finora ho resistito, ma non so per quanto ancora riuscirò a vivere qui. In tanti come me dicevano che non l’avrebbero mai lasciato, ma alla fine l’hanno fatto. O sono andati via, o stanno per farlo, o come me aspettano di raggiungere il limite di sopportazione».

Dopo aver raccontato le avventure di una ragazza tossicodipendente in una Teheran minacciata dal terremoto nel bestseller Non ti preoccupare (Ponte33) torna in Italia con Tehran Girl, in libreria dal 4 marzo (Bompiani, traduzione di Giacomo Longhi). Questa volta scava nel passato di una trentenne iraniana, un’avvenente segretaria di un uomo d’affari della Repubblica Islamica, la cui infanzia è legata al destino della sinistra e alla lotta politica durante la rivoluzione del 1979. Quando Elham scopre che il padre scomparso da 25 anni è in realtà in Svezia inizia un percorso a ritroso nella propria vita fino a quando era bambina, a quella mattina in cui si sveglia e si accorge che tutti gli adulti sono spariti, attanagliata dal dubbio di essere stata lei a far saltare la copertura dei genitori.

Com’è l’Iran che vede in questi giorni fuori dal suo studio?
«Si respira un’atmosfera di esasperazione. È un momento molto difficile, a novembre tantissimi giovani sono stati arrestati e uccisi durante le proteste contro il caro vita e l’aumento della benzina. A questa tragedia si è aggiunta quella dell’abbattimento dell’aereo ucraino. Sono stati forse i giorni più bui dopo la fine della guerra con l’Iraq. Persino più bui delle manifestazioni dell’onda verde del 2009 o quelle delle università nel 1999».

Al Corriere della Sera nel 2017 dichiarò di essere «orgogliosa della politica dell’Iran contro l’America». La pensa ancora così?
«L’accordo sul nucleare tra Ruhani e Obama stava aprendo un futuro positivo per le relazioni tra l’Iran e il resto del mondo. Ma con l’arrivo di Trump siamo stati costretti a rivedere le nostre previsioni. Le speranze di chi credeva in una ripresa dei rapporti diplomatici, commerciali e culturali tra Iran e Stati Uniti sono state drasticamente ridimensionate. A quanto pare c’è chi preferisce ostacolare il dialogo».

Sempre al Corriere , nel 2016 raccontava di aver «appena finito un romanzo a cui sto lavorando da sei anni. Non sono ancora riuscita a trovare un editore iraniano abbastanza coraggioso da proporlo al Ministero della Cultura, forse lo pubblicherò facendo risultare come luogo di stampa l’Afghanistan! Un escamotage per aggirare la censura ...». Quel libro era Tehran Girl . Alla fine come è andata?
«Come mi aspettavo. In Iran nessun editore era disposto a sottoporlo all’Ershad, l’ufficio che concede il nullaosta alla pubblicazione. Dopo un po’ mi sono stufata di tenere il libro chiuso nel cassetto, niente mi impediva di pubblicarlo altrove. Ma perché mai pubblicare lontano quando potevo farlo qui vicino, in Afghanistan, dove si parla la nostra lingua e non servono permessi? Ho contattato Zaryab, l’editore che ha pubblicato la traduzione persiana di Lolita. Ha accettato subito e stampato senza modificare una virgola. Un migliaio di copie che ho fatto circolare tra gli amici sono presto finite. Ora che è stato ristampato, in tanti mi chiedono di leggerlo e con fatica cerco di farglielo arrivare. Non mi chieda come».

Come è cambiato il suo rapporto con la censura da quando era una scrittrice emergente a oggi?
«Ho sempre cercato di non scendervi a patti. Ma è stato solo quando ho deciso di non chiedere più il permesso per i miei libri che ho capito quanto fosse grande l’autocensore che mi portavo dentro».

Ha creato un personaggio irriverente, senza filtri, una giovane donna che il lettore segue come se fosse seduto al posto del passeggero della Peugeot con cui lei sfreccia per Teheran. Quante vite di altre donne ha utilizzato per dare vita a Elham?
«Elham è un personaggio molto diffuso in Iran. La classica ragazza a cui si chiede soltanto di essere bella. La gente sorride e ironizza su di lei, la giudica perché pensa sia stata assunta solo per il suo aspetto. Ho provato a immedesimarmi in lei, a smettere di vederla come uno stereotipo. Non dice mai “io”. Dice “Vai, corri, fai” perché è in balia di questo meccanismo che la vuole sempre pronta a ricevere ordini. A nessuno interessa il suo passato, eppure lì si nasconde il motivo che l’ha portata a essere così. Si sente colpevole della scomparsa del padre e in debito con la famiglia. Si concentra sulle cose materiali perché è sempre alla ricerca di indizi per ricomporre il quadro. Presta la massima attenzione ai dettagli, ascolta, osserva, intuisce e analizza. Quando non ci si può fidare delle parole degli altri, l’aspetto fisico, i vestiti, i soldi, gli oggetti diventano un mezzo per arrivare alla verità».

E quanto c’è di lei trentenne nella sua protagonista?
«Ho perso mio padre a 27 anni. Se n’è andato all’improvviso e non ho avuto tempo di salutarlo. Dopo vent’anni non l’ho ancora accettato del tutto. Parole non dette. Verità mai espresse. Penso che questo trauma abbia dato forma al libro».

«Zia Minu se ne sta in disparte. Stivaletti col tacco, trench, occhiali da sole e veletta di pizzo». Leggendo queste sue parole vengono in mente le foto delle iraniane prima del 1979, che spesso accompagnano articoli sulla condizione femminile. Che effetto le fa sapere che per le nuove generazioni occidentali queste immagini sono una sorta di simbolo, prova visiva da postare sui social, della perdita di libertà per le donne?
«La verità è che alle donne iraniane sono negati un sacco di diritti che altrove vengono dati per scontati. Andare in bicicletta, entrare allo stadio, avere la custodia dei figli, avere la stessa parte di eredità dei parenti maschi. Togliersi il velo è diventato un modo di rivendicarli, di raccoglierli tutti sotto un unico simbolo. Detto ciò, le foto patinate dell’Iran pre-rivoluzione che circolano spesso sui social non sono un’immagine reale della società di allora. Solo una fascia ristretta, la classe media urbana, laica e benestante, faceva i picnic in riva al Caspio e permetteva alle ragazze di portare la minigonna. Anche prima della rivoluzione non si poteva andare in giro vestite così in provincia o nei quartieri popolari di Teheran».

Cosa prova un’iraniana di oggi vedendo quelle immagini?
«La maggior parte delle iraniane non mette il velo in casa, lo indossa solo per strada. Alle feste, ai ritrovi di famiglia o per un appuntamento le ragazze si vestono esattamente come le loro coetanee nel resto del mondo. La strada serve solo come passaggio da un luogo libero e sicuro a un altro. Le loro feste non hanno niente da invidiare a quelle di Los Angeles. Festeggiare dà loro la sensazione di lottare per la libertà. Anche truccarsi, indossare vestiti che rispettano nella forma i dettami islamici ma in realtà sono terribilmente sexy è un modo per esprimere dissenso. Il trucco e la sensualità, che vengono così tanto spesso usati per assoggettare le donne, qui sono una forma di protesta. Più ti trucchi, più sei sexy, più esprimi il tuo dissenso contro il potere. In Iran è tutto sottosopra. La maggior parte delle ragazze non ha fiducia nella propria bellezza naturale, allora si rifà il naso, gli zigomi, le labbra. Si tatuano le sopracciglia, mettono le unghie finte, le lenti a contatto colorate. Siamo uno dei Paesi con il più alto uso di chirurgia estetica e di articoli di bellezza. Perché vogliamo essere libere, capite? È un po’ complicato».

Pensa che questa sua nuova protagonista, il modo in cui lei la racconta, possa ispirare una nuova generazione di giovani nel suo Paese?
«Si possono capire molte cose di un testo anche da come non è stato scritto. Io evito di abbellire. Non mi interessa usare un linguaggio aulico o ricercato, né ispirare qualcuno. Un romanzo esiste innanzitutto per farsi leggere. Anche quando provoca rabbia o emozioni poco rassicuranti. Spero invece che porti lettori diversi a interrogarsi sulla libertà di guardare al passato. Nella Bibbia, la moglie di Lot viene trasformata in una statua di sale perché si guarda indietro nonostante le sia vietato. Oggi abbiamo deciso di ignorare il passato, alcuni mi pare che preferiscano addirittura dimenticarlo. Sento però che nell’inconscio collettivo c’è un grande bisogno di ricordare. Ma perché ci sono così tanti ostacoli che ce lo impediscono? Davvero se ci guardiamo indietro rischiamo di venire trasformati in statue di sale?».