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 2020  febbraio 21 Venerdì calendario

Su "Cose che si portano in viaggio" di Aroa Moreno Durán (Guanda)

MADRID. Negli anni 50 per le strade di Berlino Est c’erano ancora montagne di macerie rimaste lì dal crollo del Reich. Rimuoverle era tra i compiti delle Trümmerfrauen, le vedove di guerra. Le donne tastavano i detriti in cerca di mattoni ancora buoni per rimettere in piedi la Germania. A sostegno delle ripulitrici venivano mobilitate una volta a settimana classi di liceali. Di una di quelle scolaresche fa parte Katia, la protagonista di Cose che si portano in viaggio, sorprendente romanzo d’esordio della madrilena Aroa Moreno Durán appena pubblicato da Guanda.

Katia è nata a Berlino, ma quando pensa alle proprie origini il quadro si fa sfocato, perché è figlia di un esilio dimenticato, i suoi genitori sono repubblicani spagnoli. "Non erano molti, circa trecento famiglie. Furono accolti dalla neonata Germania comunista a partire dagli anni ’50. Un decennio più tardi assistevano alla costruzione del Muro" racconta l’autrice, classe 1981, al primo romanzo dopo due raccolte di poesie e due biografie, una di Frida Kahlo, l’altra di Federico García Lorca.

Al termine della guerra civile, aprile 1939, gli antifranchisti ripararono per lo più in Francia, Messico, Urss... Della microcomunità finita tra i rigori e i grigiori della Repubblica Democratica Tedesca si è sempre saputo poco. "A farmi scoprire quella realtà fu, qualche anno prima di morire, il poeta Marcos Ana, il prigioniero politico rimasto più a lungo nelle carceri di Franco: oltre un ventennio. Uscito di galera, venne inviato dal Partito Comunista in Unione Sovietica, a Cuba e in alcuni Paesi del blocco orientale tra cui la RDT. A Dresda ricordava di essere stato ricevuto da un comitato di spagnoli. Gli facevo domande, cominciai a investigare, ma la documentazione era scarsissima" dice Aroa. "Decisi comunque di iniziare a scrivere il romanzo. Più andavo avanti, però, e più sentivo che mi mancava qualcosa: testimonianze, racconti diretti, dettagli concreti sulla vita di quelle persone". Le sarebbero stati forniti da due donne, due figlie di quell’esilio minore scovate durante altre indagini nella Germania ormai riunificata.  

Il titolo originale di Cose che si portano in viaggio è La figlia del comunista. Va’ a capire perché in Italia non l’abbiano ritenuto all’altezza. Non è un romanzone storico (evviva). È un libro piccolo: 170 pagine (evviva). La Storia c’è, eccome, e sconvolge la vita dei personaggi, ma è restituita con tocchi veloci, e una scrittura che, trattandosi di un debutto, colpisce per autocontrollo, sensibilità, misura.

Il racconto di Katia si snoda tra il 1956 e il 1992. Della guerra civile spagnola la ragazzina sa poco. Sa solo che quelli come suo padre l’hanno persa male e mai se ne faranno una ragione. Del passato non si parla: sta chiuso in una misteriosa valigia piena di carte ingiallite che i genitori tengono nascosta sotto il letto. Papà lavora in fabbrica, la moglie in casa, e fa a cazzotti col tedesco: "Con queste parole infinite non è una lingua umana" protesta. Si mangiano patate e zuppa di cavolo. Si vive di poco, ma con - seppur plumbea - dignità socialista. "Due cose curavamo come se fossero vive: la radio e la stufa. I nostri inverni dipendevano dal loro funzionamento". Fuori è tutto del colore del fumo e del cemento. Katia viene su diversa e insieme uguale a tutti gli altri. Le poesie di Neruda, i libri di Anna Seghers, i gemellaggi con la gioventù cubana, le calze velate. Da Occidente qualche eco di rock: "Sembrava che i Rolling Stones dovessero venire a suonare sul tetto della casa editrice Springer, in modo che potessimo vederli anche dal nostro lato". Era una fake news, quel leggendario concerto non si fece mai.

Katia non è una ribelle. Però l’aria tentatrice dell’Ovest finirà per irretire anche lei, spingendola al gran salto, alla fuga dall’altra parte, a un "tradimento" che avrà contraccolpi drammatici. Nella sua vicenda c’è un pezzo di Europa che per sovraccarico di Storia si è ritrovata senza storia. "Quella gente era sopravvissuta a tre conflitti: la guerra civile, la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda" ricorda Aroa. "Fuggirono dal regime franchista per ritrovarsi sotto quello comunista. E si mossero tra Paesi che via via sarebbero scomparsi: la Spagna repubblicana, poi quella della dittatura, e infine la Germania Est. Chi erano? Se lo domandavano tanto i padri che i figli. E non trovavano risposta".

A un certo punto, il comunistissimo papà di Katia (uno a cui l’Ostpolitik, la politica di distensione verso Est capitanata dal cancelliere occidentale Willy Brandt, dà ovviamente l’orticaria) ha una botta di nostalgia e davanti alle figlie prova a spacciare una foglia di cavolo per una fetta di jamón serrano. Ma che diavolo è il jamón serrano? si chiedono le ragazzine, ormai tedeschizzate. Come se la passavano quelle famiglie? "Vivevano austeramente" dice Moreno Durán. "Ma, tutto considerato, nemmeno troppo male. Formavano una piccola comunità defilata, però coesa. Sotto l’ala protettiva del Partito. Molti vennero impiegati nelle fabbriche, però a Est trovarono rifugio anche intellettuali, tecnici, artisti".

I vincoli ideologici e sentimentali della giovane Germania orientale con la Spagna sconfitta erano robusti. Tra i gerarchi del regime ce n’erano di importanti che avevano combattuto, spesso eroicamente, nella guerra civile. Nella Rdt occuparono posti di rilievo, ai vertici dell’esercito e, immancabilmente, dei servizi di sicurezza. Nel romanzo non poteva mancare la Stasi. Viene fuori, a sorpresa, nell’ultimo capitolo. Da quella misteriosa valigia ficcata sotto al letto. Ma mi fermo qui. Perché le leggi anti-spoiler ormai sono feroci solo un po’ meno della polizia comunista.