Linkiesta, 5 marzo 2020
Che cosa significa la vittoria di Biden
Il tweet unitario è emblematico perché dimostra quanto abbia funzionato l’alleanza tra i leader responsabili e gli elettori democratici, in particolare quelli afroamericani, contro la seconda opa ostile di Sanders nei confronti del partito di Clinton e Obama, dopo quella del 2016.
Il tweet prova che i candidati che si ritirano poi si schierano con Biden, ma anche che gli elettori democratici si affidano a Sanders con percentuali più basse rispetto a quattro anni fa, probabilmente perché ricordano le responsabilità del senatore socialista nell’indebolire nel 2016 la credibilità di Hillary Clinton e il peso che ha avuto la sua campagna nel convincere gli elettori a non votare, tanto sarebbe stato pressoché lo stesso scegliere tra Trump e la prima donna candidata presidente, peraltro non una qualsiasi ma una che si batteva per riformare la sanità americana quando Sanders flirtava ancora con i guerriglieri centroamericani e che ebbe il coraggio di andare a dire ai cinesi che «i diritti delle donne sono diritti umani».
Se all’ala democratica del partito si aggiungono gli elettori di Elizabeth Warren, la quale detesta Bernie e sperava di poter rappresentare la sintesi tra il socialismo rivoluzionario di Sanders e le posizioni liberal democratiche di Biden, ma anche i sostenitori di Mike Bloomberg, il quale si è candidato proprio perché temeva che Sanders potesse vincere e si è ritirato quando Biden ha ripreso il sopravvento, sono sei o sette su dieci gli elettori del Partito democratico che non vogliono Bernie Sanders come candidato per sfidare a novembre Donald Trump.
I motivi sono molteplici: Bernie Sanders è un avversario politico dei democratici da cinquant’anni, li disprezza. Non c’entrano le sue posizioni anti establishment, come dimostra il fatto che abbia convinto meno di due elettori neri su dieci. Sanders è uno che alle elezioni del 1960 sosteneva che John Kennedy fosse più conservatore di Nixon, uno che ha fatto la luna di miele in Unione Sovietica, uno che ancora la settimana scorsa ha ribadito che Fidel Castro ha fatto anche cose buone come la buonanima nell’Agro Pontino, uno che spiegava che Obama fosse un repubblicano moderato, salvo aver trasmesso ieri uno spot truffaldino con collage di dichiarazioni obamiane del 2007 e del 2016 che lasciano intendere che l’ex presidente lo sostenga alle primarie.
Insomma, al Super Tuesday ha certamente prevalso Joe Biden e hanno perso sia Sanders sia Trump che, ricordiamolo, per evitare che Biden vivesse una notte come quella di martedì ha organizzato una maldestra macchinazione politica che lo ha costretto a subire un processo di impeachment da cui si è salvato perché al Senato i repubblicani lo hanno assolto per spirito di partito.
Ma al Super Tuesday ha vinto tutto il Partito democratico, non solo perché ha temporaneamente respinto l’assalto di Sanders, ma anche perché non si è fatto ammaliare dal mezzo miliardo di dollari (solo di spot elettorali) spesi da Bloomberg.
Naturalmente, è ancora lunga. Sanders potrebbe ancora recuperare e, cosa altrettanto grave, danneggiare le possibilità di Biden se dovesse scatenare i suoi come fece con Hillary, anche se per ora sembra avercela soprattutto con la Warren e con il Washington Post (altra cosa in comune con Trump). Ma l’idea dietro quel tweet, cioè che si debbano unire le forze, moderare le ambizioni personali e rimboccarsi le maniche per provare a sconfiggere tutti insieme intanto le tentazioni demagogiche interne e poi l’anomalia alla Casa Bianca, è quella vincente. Tra l’altro, è un’idea che vale anche di qua dell’Oceano.