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 2020  marzo 05 Giovedì calendario

Adamo ed Eva Neanderthal?

Eva mitocondriale. È il titolo di un racconto del 1995 dello scrittore di fantascienza Greg Egan, dove il protagonista e la studiosa da lui amata, Lena, si trovano nelle follie di una disputa tra due gruppi di fanatici: gli uni sostengono ideali pacifisti ispirati dal fatto che l’umanità discende da una “unica” donna, l’Eva mitocondriale; gli altri inneggiano al primato della forza, avvalendosi della discendenza di tutti gli uomini da un “unico” uomo, l’Adamo cromosomico (o Adamo Y-cromosomiale). Guardando all’antenata Eva, dalla quale tutta la specie Homo sapiens giungerebbe, Lena sogna un’umanità migliore, riunificata dal senso di appartenenza alla stessa comunità. Il protagonista, non avendo sogni umanitari né credendo in un qualunque destino collettivo, sbeffeggia entrambi i gruppi e ricorrendo a una raffinata tecnica quantistica smentisce le loro datazioni. Siamo tutti, uomini e donne, figli della stessa madre. Gli uomini sono tutti figli dello stesso padre. È così? Prima delle teorie contemporanee che mettono a tema la questione, Adamo ed Eva erano già figure metaforiche utili a fornire un vocabolario all’incipiente embriologia. Servivano parole per esprimere concetti relativi alla genesi della vita degli organismi animali. In alcuni testi scientifici del Seicento e del Settecento non a caso si trova il nome dei progenitori biblici: essi non intendono rimandare alla Bibbia per motivi teologici ma cercano un modo di identificare e collocare da qualche parte la genesi delle forme viventi a opera dei principi maschile e femminile. Accade che mentre le teorie scientifiche prendono forma, i loro termini vengano rubati da altri contesti culturali e risignificati.
Non stupisce, allora, che la menzione del progenitore paterno “Adamo” e della progenitrice materna “Eva” sia ricomparsa grazie alla ricaduta pubblicistica di studi di antropologia evoluzionistica della fine degli anni Ottanta. Spieghiamo meglio. La comune progenitrice della nostra specie risultò identificabile grazie al fatto che il Dna dei mitocondri delle nostre cellule accomuna uomini e donne di oggi. Questa venne detta, comunemente e tra qualche polemica, “Eva”, prototipo di un primo gruppo di donne Homo sapiens. L’analoga indagine svolta per gli uomini sulla presenza del cromosoma Y individuò un Adamo, comune solo agli uomini della nostra specie poiché il cromosoma Y si trasmette solo da padre a figlio. È così sembrato che la specie fosse corrotta da uno strano passato: alla sua origine non si trovavano una donna Homo sapiens e un uomo Homo sapiens, essendo i due separati da migliaia di anni: l’Adamo sembrava comparso in Africa tra i 50 e i 70.000 anni fa; l’Eva, sempre in Africa, ma tra i 140 e i 200.000 anni fa. Entrambi vivevano in gruppi di poche unità tra altri esemplari affini: tra questi, solo i prototipi di Adamo e di Eva furono in grado di segnare la linea che ar- riva fino ai giorni nostri.
Ecco allora il problema detto in modo grossolano: con chi si univano le “Eve-Sapiens” prima che comparissero gli “Adami-Sapiens”? Con i Neanderthal o i Denosoviani? Gli ibridi generati erano in grado di procreare? Gli studi che si sono susseguiti, basati su vari tipi di analisi genomica, hanno attestato che le datazioni erano discutibilmente precise, al punto che sono state continuamente ritoccate avvicinando nel tempo i due prototipi. Inoltre è stato confermato che le varie specie di Homo si sono potute incrociare in vario modo. In questa direzione va il recente studio pubblicato sulla rivista “Cell” da un’équipe di ricercatori della Princeton University guidata da Joshua Ackey, basato sull’analisi delle sequenze geniche tratte dal Progetto Genoma. Secondo questo studio, le popolazioni africane presentano circa lo 0,3% di geni neanderthaliani (nelle specie europee è pari a circa il 2%). Tanto basta a ipotizzare che i Neanderthaliani, che abitavano le terre europee o asiatiche, dovettero muoversi verso il continente africano lasciandovi traccia. Queste e altre considerazioni hanno permesso di supporre che gli incroci sporadici
interspecifici tra i nostri antenati e quelli di altre specie Homo siano accaduti a varie riprese nella storia dell’evoluzione umana.
La scienza provoca la teologia: Homo neanderthalensis fu segnato dal peccato originale come Homo sapiens? Che la nostra specie non abbia una linea evolutiva pura e sia frutto di intrecci continui di varie specie di Homo sembra chiaro. Già dopo che Steensen spiegò la natura fossile dei denti di pesce squalo (1667), si andò capendo che c’è una storia evolutiva e che le ipotesi per cui le forme viventi sono state direttamente create alle origini del mondo dovevano subire profondi ripensamenti fino a essere rigettate. Se così era, anche la dottrina del peccato originale subiva ripercussioni. Come inquadrare la storia dentro categorie metafisiche se diveniva il prodotto di un’evoluzione? Un Adamo e un’Eva collocati in un Eden mitico ponevano il problema della loro natura: una natura comune a quella umana, affinché i due progenitori potessero trasmettere l’esperienza del peccato; ma anche una natura originaria, prima della caduta. In epoca medievale san Tommaso, sulla scorta di sant’Agostino, individuava eventi praeter naturae ordinem intermedi a quelli naturali ordinari e quelli miracolosi per i quali interviene Dio. Nell’ordine preternaturale erano concepibili situazioni eccezionali: come nel caso dei progenitori, perfettamente umani, ma capaci di vivere prima del peccato in uno stato di piena innocenza originaria, dimostrando che l’essere umano ha potenzialità paradisiache. Questa dottrina subì radicali ripensamenti, sin dal Concilio di Trento, e nei tempi recenti da Henri De Lubac in poi.
Con lo sviluppo della scienza il problema assume sempre nuove forme. Tra i tanti aspetti di questa complessa questione, si tengano distinti almeno due problemi a cui la dottrina del peccato originale voleva rispondere: l’esistenza del male in un modo creato buono da Dio, e l’esperienza umana del peccato come male compiuto anche quando si desidera non compierlo. Per il primo, se si vuol tenere ferma la bontà del mondo, va ammesso il processo evolutivo come cammino compiuto dalla creazione verso una maggiore pienezza: le doglie del parto a cui allude san Paolo (Rm 8,22). Per il secondo problema va ricordata la centralità di Cristo che riscatta l’umanità dal dramma di aver perso la comunione. Più che collegarla a un mitico stato di perfezione o all’appartenenza genetica alla specie umana, la dottrina del peccato originale è stata resa intellegibile richiamando lo stato di precarietà e i limiti connaturati di uomini e donne. È lo sguardo benevolo di Dio e la via redentiva aperta da Cristo che rende l’uomo e la donna capaci dell’amore che trasfigura il mondo.
Nessun problema, dunque, se sappiamo che non esiste una natura biologica mitica al di fuori della storia evolutiva e che gli Adami e le Eve del passato hanno fatto i loro cammini promiscui. La scienza lo conferma, mentre produce nuove teorie e raffina le vecchie. Anche la teologia raffina i suoi metodi ed elabora nuovi contenuti, coadiuvata dalla riflessione filosofica e offrendo varie ipotesi. Proprio grazie a questo lavoro di approfondimento è possibile trovare una ragionevole integrazione tra il punto di vista della scienza e i contenuti della fede, in modo che le ipotesi scientifiche più recenti non stonino con la sensibilità credente (si veda G. Tanzella Nitti, Teologia Fondamentale in contesto scientifico, vol. 3, 2018; o anche la riflessione del paleoantropologo Fiorenzo Facchini su “Avvenire” del 25 marzo 2017 circa la salvezza come evento universale destinato anche ai Neanderthaliani). Se il peccato originale non è riducibile alla sola questione biologica, la teologia può offrire chiavi di lettura ulteriori a quelle che nel passato si potevano capire e che oggi sarebbero incomprensibili. Un lavoro in itinere, un lavoro avvincente.