Marco Risi racconta tutto: i ricordi che ancora lo divertono e quelli che forse continuano a farlo soffrire. Il libro sul padre Forte respiro rapido - La mia vita con Dino Risi (Mondadori) è bellissimo, vero — appunti, pagine di diario, conversazioni. Racconta un rapporto fatto d’amore in cui il figlio indaga su un padre geniale, egoista, simpatico, cinico e seduttore, ma anche pudico e fragile. «Non si scopriva mai. Non si lasciava andare. Baci pochi, anzi nessuno. Abbracci? Fastidio. Quando lo abbracciavo, anche negli ultimi tempi, stringendogli le ossa, si ritraeva, rideva imbarazzato: “Ma dai, su... non sono cose che si fanno...”». Marco Risi a 68 anni è riuscito a tenere insieme privato e pubblico, cinismo e tenerezza, cinema e vita. Parla del padre, a cui era legato da un amore profondo, e attraverso di lui racconta di sé. Ci sono gli aneddoti, irresistibili: il dialogo di Dino Risi con Federico Fellini sul “grande traguardo”, venti minuti con un equivoco di fondo: per l’autore de Il sorpasso è la morte, per il regista di Amarcord è “la f**a”; il rapporto con la madre Claudia, signora elegante che alla fine dimentica chi sia il marito. E i flirt del padre, la passione per Anita Ekberg, l’arrivo del marito della diva («Le diede un bacio sulla guancia, a Dino neanche un’occhiata, e se ne andò. Anita si rivolse a mio padre e gli disse: “Tu non è eroe, eh?”. Così finì la loro grande storia d’amore»). Gli amori sono tanti, le donne sono viste come magnifiche prede. La tenerezza di Marco per Vittorio Gassman, disarmato dalla depressione. Gli ultimi appunti di Dino Risi sul suo diario, le dosi dei farmaci, e quella sensazione scritta su un foglio in stampatello, FORTE RESPIRO RAPIDO. Ma è anche un libro che fotografa l’Italia, il costume, anni formidabili «in cui tutto doveva succedere, si costruiva. Il cinema era grande, circolavano le idee e l’intelligenza».
Risi, è stato difficile?
«No, è stato necessario. A un certo punto il legame con mio padre era diventato una cosa con cui fare i conti, volevo mettere a posto i miei pensieri, la verità sul nostro rapporto. Non la considero una biografia».
Quanto ci ha messo per scriverlo?
«Fino a quattro, cinque anni dopo la sua morte non riuscivo a parlare di lui. Ho deciso di scrivere per evitare che mi chiedessero sempre: è difficile essere figli? Che succede quando si diventa adulti con un padre così?».
Appunto, che succede?
«Che senti il bisogno di mettere a posto i ricordi. Stavo bene con mio padre. A differenza dei miei amici che con i loro avevano scontri, non credo di aver mai litigato con Dino.
Per questo, scrivendo il libro, ho avuto l’impressione che fosse d’accordo e vicino a me. Credo anche che sia servito per ricostruire un periodo storico che ci appartiene e stiamo abbandonando».
Che periodo è stato?
«Ha reso felici noi e anche quelli venuti dopo. Anni meravigliosi, di grandi artisti, grandi intelligenze. Negli anni dopo la guerra c’era un popolo che ricominciava a vivere. La vita rifioriva: poi è diventata un’altra cosa, e ci troviamo in quella nebbia intellettuale che non aiuta a capire chi siamo».
Oggi è deluso?
«Sì, è tutto un po’ appiattito. E mi sembra troppo facile ricondurre tutto ai social. Parlando di quegli anni sento dire: “Basta con questa storia, tanto qualcuno dirà che era meglio prima”. Beh, ne sono convinto. E ne sono convinti anche i miei figli, che sono giovani. Erano anni creativi».
Anche nel cinema.
«Ma certo. Lo scontro tra Monicelli e Moretti, quando Arbasino moderava i dibattiti, resta formidabile. Per definire le fasi della carriera di un regista, papà citava spesso Arbasino: “Brillante Promessa, Solito Stronzo, Venerato Maestro”. Quando c’era Fellini, il più grande artista del ’900, l’aria frizzava. Partecipavi a una vita interessante. Oggi è banale, noiosa, forse perché sto invecchiando».
Nel libro parla di suo padre, della vecchiaia, della morte. Dei figli che diventano genitori dei propri genitori. Si è mai censurato?
«Non ho nascosto niente. È come una lunga seduta psicanalitica, e pensare che mio padre, che aveva studiato psichiatria, non credeva nell’analisi. Sì, il libro ha a che fare con l’analisi e con l’analizzare la vita. Ed è vero, è anche un libro sulla morte. Ogni tanto si evita di affrontarla, si parla di tanti che non ci sono più come non ci sono più tanti cinema e ristoranti».
È consapevole di aver tenuto insieme il cinismo paterno e l’amore?
«C’è tenerezza e c’è verità. Credo di essere stato onesto. Nel libro ci sono anche ricordi scomodi, sentimenti che uno avrebbe voluto tenere per sé, momenti miei difficili, situazioni delicate tra i miei genitori».
Ha dedicato molte pagine a sua madre Claudia Mosca.
«Molti non sapevano chi fosse mia madre. Racconto chi era con grande sincerità, senza toglierle niente. Alla fine viene fuori quasi senza nessun conformismo, mamma si rendeva benissimo conto di quello che stesse succedendo con papà. Non c’era antipatia né rancore, non era un conflitto troppo profondo. In fondo lui non le toglieva grandi cose, tra loro l’affetto era rimasto».
Però alla fine cancella suo padre dalla memoria.
«Mia madre era bella nel suo essere sempre gentile, educata bene. Amava la bellezza, mi faceva notare cose che non avrei mai notato, ad esempio il gomito di una signora. Non so poi come, a un certo punto, la sua testa abbia cancellato una fetta di vita importantissima. Non ricordava chi fosse il marito, una cosa triste e straziante ma la rendeva così ingenua che l’amavo ancora di più. Chi non si sarebbe voluta ricordare di Dino Risi, di averlo amato? Invece lo cancellò. Quando chiese: “Ma chi è quel signore?”, papà diventò pazzo».
Le ultime pagine sono dolorose.
«Fino a un’ora e mezza prima di morire mio padre era lucido, stavo girando Fortapàsc. Mi ha detto: “Pensa al tuo film”».