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 2020  marzo 05 Giovedì calendario

Biografia di Rebecca Solnit

Molte – ma anche molti, in genere giovani, anche etero – pensano a Rebecca Solnit con la riconoscenza riservata agli scienziati che isolano un virus. Brutto, molesto, notoriamente pandemico. È il virus del mansplaining, della tendenza maschile a spiegare alle donne, a cercare di controllarle trattandole, a priori, da incompetenti. Solnit lo ha descritto in un saggio scritto di getto nel 2008 in una mattina di pessimo umore, pubblicato online e subito virale, diventato un bestseller. Men Explain Things To Me ( Gli uomini mi spiegano le cose, Ponte alle Grazie) è da allora un testo base del femminismo pop e non, e una bibbia delle ragazze aggiornate. Quelle che la scrittrice di San Francisco elogia nel suo libro appena uscito, Recollections of a Non-Existance (Haymarket Books); per «la nuova lucidità, la consapevolezza dei propri diritti e bisogni» che da una decina d’anni non la fa più sentire «una femminista solitaria».
La ballerina morta
Il libro è una quasi autobiografia; racconta la sua formazione di scrittrice, femminista, ambientalista, attivista; per inclinazione e scelta, le relazioni sentimentali e familiari vengono citate en passant. Lo leggono le giovani ma parla alle più vecchie: Solnit, come quasi tutte le coetanee (è del 1961, cresciuta in un sobborgo californiano con padre violento e madre zittita) ha vissuto buona parte della sua vita in condizioni di inconsapevolezza indotta, tra uomini paternalisti e/o viscidi e/o sprezzanti e/o che ti ignorano. Come tante guarda indietro e si sente un’imbecille e si vergogna. Lei non lo dice così: «Parte di quel che ti tiene su quella sedia in quella stanza a sopportare molestie o abusi da uomo è l’avere come donna raramente visto un finale diverso. Nei romanzi che hai letto, nei film che hai visto, nelle storie che ti hanno raccontato da quando sei nata». E così «Alcune donne più anziane sono così assuefatte al patriarcato che non riescono a rompere il circolo vizioso del “non è così grave/non essere lagnosa” e ad ammettere che sì, è una merda, e ha conseguenze». Non evitabili neanche provando a ingentilirsi con abitini in tulle. Solnit lo faceva da giovane, li chiama « outfit da ballerina morta».

La santa online
Alcune autrici femministe la accusano di semplicismo, di rimasticazione di idee note. Citano i tanti selfie sui social con copie di Men Explain Things To Me, e la trattano da mezza Kardashian della pamphlettistica. Ma forse il successo di Solnit, che non è simpatica e non sorride, viene da non essere una femminista di professione: ma una scrittrice idiosincratica, colta e curiosissima. Diventata «santa patrona degli estremamente online», femministe, ambientalisti, attivisti progressisti dopo una vita da decatleta della saggistica: ha scritto libri di storia del West, di fotografia, sui cambiamenti climatici, sugli artisti bear, degli atlanti urbani. Il suo capolavoro è il poderoso Wanderlust ( Storia del camminare, Bruno Mondadori). Il libretto che l’ha proclamata “Voice of the Resistance” è Hope in the Dark, “speranza nel buio”, scritto ai tempi di George W. Bush. Nel 2016, dopo l’elezione di Donald Trump, Solnit lo postò su Facebook, da lì è diventato un bestseller. E però «che le commentatrici donne ci piacciono se fanno le mercanti di speranza è inquietante», critica un’altra scrittrice, Vivian Gornick. Ed è un’obiezione da sinistra. Da più a destra, arriva qualche non insensata presa in giro. Per il suo sussiego, lo sloganismo emozionale, la svagatezza da intellettuale hippie. «La sua scrittura è profondamente psicologica; parla del “sentire” le cose e inveisce spesso contro “la tirannia del quantificabile”», riferiva Rana Foroohar sul Financial Times. D’altra parte, Solnit si occupa di cose difficili da quantificare.

Kerouac e i cowboy
L’ultima, su cui la intervistano ora (per chi ascolta podcast: è alla New Yorker Radio Hour e all’Ezra Klein Show) è la sentenza di colpevolezza per Harvey Weinstein. Per Solnit, la condanna del produttore è uno spartiacque, il #MeToo ha dato alle donne la voce da sempre soppressa – il soggetto dell’ultimo libro – ma è solo un inizio. Ne parla con frasi da Baci Perugina femministi però un po’ veri («la violenza di genere è ambientale. Ti succede anche quando non ti succede»). Poi nota che i Weinstein e i Trump, hanno «il potere di dettare la realtà»; che gli accusati del #MeToo sono anche «i creatori della nostra cultura». Di altri creatori parla Solnit nell’ultimo libro. Di Lawrence Ferlinghetti che le pubblica un libro ma non ritiene necessario salutarla; di Jack Kerouac che in un filmino d’epoca gioca ai cowboy a una festa e va via lasciando all’artista padrona di casa i piatti da lavare. Ferlinghetti e la sua libreria City Lights sono ancora in piedi. San Francisco è cambiata, per via degli Zuckerberg e i Dorsey che «sono più o meno il Male» e dei loro techies : «I nostri ricchi sono più ricchi. I nostri senzacasa sono più disperati. I nostri hipster sono più pretenziosi». Pessimista sulla città, la “Cassandra della sinistra”, in questi giorni triste su Facebook per le sconfitte di Elizabeth Warren, è ottimista sulle più giovani: «Le generazioni precedenti hanno piantato dei semi, ma loro sono il bellissimo raccolto. Loro sono la vittoria» (i detrattori dicono che Solnit ha successo perché dice a donne e americani liberal le cose che vogliono sentire; non è peccato volerle sentire, magari).