La Stampa, 5 marzo 2020
I 60 anni di Ivan Lendl. Intervista
«Il golf», ha ammesso un paio di mesi fa Ivan Lendl, «mi dà quello che il tennis non mi può più dare. Sono stato addestrato a competere per tutta la mia vita: non riuscirò mai a smettere». E pazienza se si tratta dei «torneini over 50, frequentati da vecchietti come me». Se sei nato per sbranare, alla fine ti accontenti anche di un bocconcino. Domani Ivan il Terribile, l’incubo di Connors e Borg, di McEnroe e Becker, compie 60 anni, e sentirlo ammettere che «quello che non mi fa dormire la notte sono i dolori all’anca», fa un po’ tenerezza. Perché di Lendl, il vero dominatore del tennis negli anni ’80 - per tornei vinti, confronti diretti, settimane da numero 1 - conserviamo l’immagine feroce dei tempi gloriosi, quando solo a nominarlo nei circoli si spostavano i quadri e si crepavano i cristalli. «Ma a me è sempre piaciuto un sacco scherzare», dice. Magari si tratta di un umorismo sottozero, un po’ stralunato, anzi «malato», secondo il suo ultimo pupillo Sascha Zverev, ma Ivan è sempre stato un battutista, oltre che un grande battitore. «Qualche anno fa organizzai una esibizione fra Federer e Sampras», racconta. «John commentava in tv e quando l’ho incontrato nei corridoi gli ho detto: "Ho sempre saputo che avresti finito per lavorare per me"».
Imprese e crolli
Di Lendl, otto Slam vinti e due buchi dolorosi nella memoria in corrispondenza delle finali perse contro Cash e Becker a Wimbledon - la balena verde che lo ossessionava come un Achab con la racchetta al posto del rampone - curiosamente ci ricordiamo soprattutto le sconfitte. Quella leggendaria contro Chang, al Roland Garros del 1989, quando il diabolico Michelino lo fece uscire di cotenna servendogli da sotto - Nick Kyrgios non ha inventato nulla… - o quella jellatissima del Masters del 1988, cinque set di botte da orbi con Becker, decisi da un nastro beffardo. L’unica vittoria che tutti i fan ricordano è quella che nel 1984 impedì al suo rivale più classico, SuperMac, di prendersi almeno una volta il Roland Garros. Ma di solito se ne parla per recriminare sulle occasioni scialate dall’americano, mica per ricordare la sua tigna da fuoriclasse.
Quei ricordi italiani
All’Italia, invece, contribuì a scippare una finale di Davis a Praga, nel 1981, anche se i furti veri avvennero nel match fra Panatta e Smid. «Ero negli spogliatoi, non ho visto neppure il match…», svicola oggi quando provate a ricordarglielo. E’ stato tante cose, Lendl. Il primo a studiare una dieta rigorosa, in collaborazione con l’allora famoso dottor Haas - pasta, verdure, frutta e acqua - che lo aiutava a mantenere le energie (Djokovic, in fondo, non ha inventato nulla...), uno dei primi a investire sull’arte pensando al dopo-tennis. Un pioniere del tennis di oggi, impostato sulla potenza del diritto e del servizio, uno dei Cannibali pre-Nadal sulla terra («Rafa fa tutto quello che facevo io, meglio di me, tranne il servizio»). Anche da allenatore, quando ha deciso di dare una mano a Murray a vincere i suoi tre Slam, lo ha fatto da guru, assiso in tribuna con la maschera da sfinge che sotto sotto ama prendere in giro il mondo. Il ragazzino spigoloso, che mamma Olga, buona tennista e sua prima maestra, nella grigissima Ostrava post Dubcek legava al paletto della rete, trasformatosi da grande nel più amerikano (con la k) degli americani dopo aver scelto l’Occidente nel 1981. Le case nel Connecticut e in Florida, la bellissima moglie Samantha. Quattro figlie di cui una più brava di lui a golf, la passione per i cani e i milioni in banca. Rimpianti, Ivan? «Ogni singola sconfitta». Ci sono ossessioni da cui davvero non si guarisce mai.