La Stampa, 5 marzo 2020
L’ultimo pescatore di anguille del Tevere
Per trovare la casa di Cesare bisogna sfidare i dubbi di un cartello ingannevole. Davanti all’ennesimo incrocio, su uno sterrato in cui si riflette l’ombra dei palazzoni dell’Eur, la scelta si fa complicata: a destra, dice la freccia di cartone, si va al mare e a sinistra verso Roma. Ma lui vive sulle rive del fiume: sulle sponde di quel Tevere di cui i romani si ricordano solo quando attraversano gli eleganti ponti del centro. Più vicino a Ostia che a Castel Sant’Angelo è tutta un’altra vita. Non ci sono i turisti e il traffico riesce solo a sfiorare questa grande oasi verde. La frenesia della metropoli sembra lontanissima e i ritmi di vita sono rimasti quelli di molti anni fa.
Le difficoltà quotidiane
L’acqua del Tevere qui scorre tra mille ostacoli: tronchi d’albero, cumuli di calcinaci e rifiuti non sempre sommersi. I pescatori non ci sono più. È rimasto solo Cesare Bergamini, che da quando era ragazzino ha lavorato qui insieme al fratello Alfredo. «Lui si è arreso ma io continuo – dice con orgoglio – Sono l’ultimo pescatore di anguille del Tevere». Sotto il ponte di Mezzocammino non si fanno più grandi affari: «Molta fatica e guadagni scarsissimi. Un tempo questa era una piccola miniera. Negli anni Settanta, quando abbiamo iniziato, ci sentivamo degli esploratori in una terra vergine. Il nostro capitone era una prelibatezza ben pagata e per questo creammo un consorzio. Mentre Roma dormiva qui si lavorava tanto: qualcuno ci considerava cercatori d’oro». All’ora della pesca il caos quotidiano del Grande raccordo anulare non è ancora iniziato. Nel silenzio delle 5 del mattino si sente giusto il clacson di un tir che frena bruscamente e il lamento di alcuni cani randagi. I bertavelli per catturare le anguille sono stesi ad asciugare tra le frasche verdi e la piccola barchetta di Cesare si mette in moto con qualche difficoltà. Il giro è sempre lo stesso: «I punti più ricchi li ho imparati da mio nonno, che mi ha anche addestrato a cucire a mano le reti. Poi sono stato io ad insegnare a tanti altri a fare questo lavoro. Però i punti più pescosi non li ho svelati a tutti».
La modernità avanza
Sotto il ponte di Mezzocammino c’è una casa blu che quasi non si vede. Oltre gli alberi e una barriera di canneti Cesare Bergamini ha costruito il suo rifugio. «Alla giusta distanza dall’argine – racconta – Altrimenti mi fanno sgomberare e mi costringono ad andare via. Qui ho vissuto per tutta la vita e ora che ho 80 anni ho trovato un’altra casa per dormire. È tosta stare qui, a fare i conti con l’umidità del fiume». Tutto è cambiato quando sulla testa dei fratelli Bergamini è comparso un gigantesco ponte di ferro: «Il rumore ci ha sconvolto la vita e gli operai sono diventati subito nostri nemici. Poi però ci siamo dovuti arrendere a quel mostro di cemento. La città piano piano si allarga, ma io da qui non me ne andrò mai».