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 2020  marzo 05 Giovedì calendario

La resistenza della Chiesa ortodossa allo sterminio degli ebrei

«Dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio». Così disse l’arcivescovo ortodosso Kiril, il 10 marzo 1943, alla stazione di Plovdiv, l’antica Filippopoli greca, seconda città della Bulgaria. Si fermò davanti al treno carico di ebrei rastrellati dai nazisti, levò la Bibbia in faccia all’ufficiale delle SS al comando e citò il Libro di Ruth. Se volevano deportare quei prigionieri israeliti al campo di sterminio di Treblinka avrebbero dovuto caricare sul convoglio piombato anche lui e i trecento fedeli che l’avevano seguito fin sui binari: «Il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio». 
Lo scrittore americano Jim Forest, teologo cristiano ortodosso, attivista per la pace e co-segretario di Orthodox Peace Fellowship, ricostruì anni fa con queste parole uno degli episodi più illuminanti della resistenza opposta dalla Chiesa ortodossa alla persecuzione antiebraica. Un episodio al quale è sembrato richiamarsi l’altro giorno anche il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni quando, in polemica frontale con certe indiscrezioni secondo cui l’apertura degli archivi vaticani potrebbe dare fiato a chi sostiene che Pio XII si batté per salvare di nascosto tantissimi ebrei, ha sentenziato: «Si vede chiaramente che non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre 1943». Come dire: altri si comportarono, in casi simili, in maniera diversa. 
Cosa accade con esattezza quel giorno di marzo del 1943 a Plovdiv non è chiarissimo. C’è chi ha sostenuto genericamente che l’arcivescovo Konstantin Markov Konstantinov (il quale dopo esser cresciuto a Sofia nel quartiere ebraico di Jutch Bunar e dopo avere avuto una sbandata giovanile «comunistoide» si era fatto prete studiando teologia e filosofia nelle università di Sofia, Belgrado e Berlino fino ad assumere il nome di Kiril) si oppose alla deportazione di circa 800 ebrei avvertendo le autorità tedesche che, se il treno si fosse mosso, si sarebbe piantato lui stesso davanti al convoglio in partenza per Treblinka. Altri, come appunto Jim Forest, hanno raccontato che il prelato, con l’appoggio del patriarca metropolita Stefan e seguito da un gran numero di cristiani, si mise di persona di traverso al convoglio: «Kiril si fece largo tra gli ufficiali delle SS a guardia della zona. La sua autorità e il suo coraggio erano tali che nessuno osò fermarlo e si diresse verso gli ebrei chiusi nei vagoni». 
Cosa successe, a quel punto? Quel che sembra certo è che i tedeschi, stupefatti da quel gesto così possente e temerario in un Paese sotto il controllo di fatto del Terzo Reich, dove re Boris III si faceva vanto dei buoni rapporti con Hitler, sbandarono. Di colpo incapaci di prendere qualunque decisione. Quale fu il senso del febbrile confronto a distanza tra gli ufficiali presenti e gli alti comandi tedeschi a Sofia o a Berlino possiamo solo immaginarlo: valeva la pena di sfidare la Chiesa bulgara mettendosi contro il popolo degli ortodossi? 
Sappiamo solo come andò a finire: quel treno non partì. E qualche giorno dopo arrivò sul tavolo di Heinrich Himmler un messaggio, attribuito all’ambasciatore tedesco a Sofia Heinz Beckerle: «I bulgari mancano della illuminazione ideologica dei tedeschi. Vivendo da troppo tempo con armeni, greci e zingari, il popolo bulgaro non vede nell’ebreo difetti che giustifichino misure speciali contro di lui». Spiega Giuseppe Dell’Agata, a lungo docente di filologia slava a Pisa e profondo conoscitore della lingua e della storia della Bulgaria: «Moltissimi degli stereotipi immondi che fecero danni immensi agli ebrei (ricchissimi, avidi, spilorci, strozzini…) erano del resto praticamente ignoti. Gli ebrei bulgari erano quasi tutti artigiani, piccolo borghesi, proletari…» Vivevano lì da secoli. E la Chiesa ortodossa fu decisa nella loro difesa. 
Certo, non riuscì a fermare la prima deportazione di circa undicimila israeliti rastrellati dai nazisti nei territori occupati (come la Tracia o la Macedonia) che l’ambizioso e autoritario Boris III, di stirpe tedesca e figlio di Ferdinand di Sassonia-Coburgo-Gotha, voleva incamerare nella Grande Bulgaria. Con l’aiuto di militari bulgari fedeli al nazionalismo filo-hitleriano, i poveretti furono caricati sui treni e su grandi barconi sul Danubio e scomparvero verso i forni crematori. E a nulla valse, scrive Gabriele Nissim in L’uomo che fermò Hitler dedicato a Dimitar Pešev, il vicepresidente del Parlamento bulgaro che «salvò gli ebrei di una nazione intera» raccogliendo decine di firme contro le leggi razziali, l’«accorato appello del metropolita della Chiesa ortodossa Stefan, che sulla strada tra Dupnitza e Kocerinovo si era casualmente imbattuto in un convoglio di ebrei deportati dalla regione dell’Egeo». 
I 48 mila ebrei che vivevano in Bulgaria prima del 1941, però, uscirono dal conflitto stremati, colpiti dalla confisca dei loro beni, deportati nelle campagne… Ma nessuno, dicono ancor oggi orgogliosamente i bulgari, passò per i camini. Tanto che a fine guerra gli israeliti a Sofia e dintorni sarebbero stati duemila in più. 
Sia chiaro, sui numeri è bene essere cauti. Tanto più su temi come questo. Alcuni passaggi storici, però, restano indelebili. Come la lettera del patriarca Stefan a Boris III, ripresa dallo studioso ebraico viennese Uriel Tal: «Le grida e le lacrime dei cittadini bulgari insultati, di origine ebraica, sono una legale protesta contro l’ingiustizia loro fatta». Il successivo memorandum del Sinodo dei vescovi ortodossi fu ancora più netto: «Preghiamo il re di annullare il provvedimento e impartire un ordine imperiale per l’abolizione definitiva della legge antiebraica. Con questo nobile gesto Vostra Maestà rimuoverà il sospetto che la Bulgaria sia ostaggio della politica antiebraica di Hitler e permetterà alla nostra patria di non macchiarsi di un orrendo crimine». Per non dire della pubblica sfida lanciata da Stefan ai nazisti: l’offerta di asilo e di ospitalità, a casa sua, del patriarca, al rabbino capo di Sofia Asher Hananel. Il quale il 24 marzo di quel 1943 (24marzo 1943), festa dei santi Cirillo e Metodio, aveva partecipato a una pubblica manifestazione di protesta contro le leggi razziali (in quel momento! sotto il tallone hitleriano!) con centinaia e centinaia di cittadini, manifestazione appoggiata dallo stesso patriarca. Che al Te Deum sul sagrato della cattedrale prese ancora una volta le difese degli ebrei perseguitati. Tutti gesti che avrebbero spinto Israele a onorare allo Yad Vashem il patriarca Stefan e l’arcivescovo Kiril come Giusti tra le Nazioni.