il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2020
L’Argentina verso un nuovo default sul debito
Si avvicina, di nuovo, il mese nel quale una soluzione definitiva al problema del debito pubblico argentino dovrà esser raggiunta. Poche settimane fa, il nuovo ministro dell’Economia, Martìn Guzman, 38 anni, ricercatore della Columbia University, formatosi con il premio Nobel Stiglitz, docente dell’Università di Buenos Aires e La Plata, ha indicato il 31 marzo come termine ultimo entro il quale deve esser raggiunto un accordo con i creditori internazionali. L’Argentina si trova infatti, per l’ottava volta nella sua storia, a dover rivedere gli impegni di debito. Sono passati 18 anni dall’ultima volta, e il ricordo è ancora vivo: le proteste di piazza, il presidente De La Rúa che scappa in elicottero dalla Casa Rosada, le banche chiuse e il Paese piombato nel caos. Questa volta, però, sembra tutto diverso.
Il popolo argentino a ottobre ha votato Alberto Fernandez come nuovo presidente anche per l’impegno, assunto in campagna elettorale, di rinegoziare il debito pubblico. La ristrutturazione non arriva quindi in modo traumatico o inatteso: nell’intenzione del nuovo esecutivo farà parte di un completo processo di svolta dell’economia Argentina. Il governo del liberista Mauricio Macri, che molti all’inizio qualificarono come il Reagan dell’Argentina, ha lasciato in eredità un’economia che viene da 3 anni consecutivi di recessione, l’inflazione oltre il 50%, più del 40% della popolazione sotto la soglia di povertà e il debito pubblico, denominato prevalentemente in dollari, oltre il 90% del Pil.
L’errore fondamentale che può essere imputato a Macri è l’aver ritenuto che sarebbe bastato aprirsi al mercato, facendo nuovamente affluire capitali dall’estero, perché questi fondi potessero trovare un produttivo impiego in Argentina rendendola più forte. L’afflusso di capitali ha invece rallentato l’esigenza di riforme economiche e mantenuto l’economia in una sorta di limbo, continuando a farle accumulare deficit con l’estero. Un limbo che è terminato col deprezzamento del peso. L’Argentina, come la gran parte dei Paesi emergenti, non ha modo di collocare gran parte del proprio debito all’estero se non denominandolo in valute di riserva internazionale. Così la svalutazione, piuttosto che aiutare l’export, ha reso insostenibile il peso dei nuovi e vecchi debiti in dollari.
Adesso, persi quattro anni ad accumulare una montagna di debito in valuta estera, un programma di aggiustamento non è più fattibile dal punto di vista economico, né – soprattutto – politico; troppi sarebbero i sacrifici richiesti alla popolazione per consentire allo Stato di onorare i propri debiti. Di questo avviso è pure il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che a seguito del programma di “aiuti” da 57 miliardi di dollari è oggi il principale creditore dell’Argentina: pochi giorni fa, infatti, il Fmi ha dichiarato il debito argentino “insostenibile”, aprendo le porte a un’operazione definitiva che ne riduca l’importo e l’impegno finanziario, attraverso “un contributo significativo dei creditori privati”. L’appoggio del Fondo, che per se stesso non accetterà riduzioni del credito, è un punto fondamentale nel negoziato con gli altri creditori. L’esperienza della ristrutturazione del debito pubblico ucraino del 2015 ha dimostrato come il Fmi possieda buone “capacità di convincimento” verso i grandi fondi d’investimento internazionali. Ma la partita è tutt’altro che decisa.
Ci sono circa 100 miliardi di dollari in ballo e, stando ai prezzi a cui quotano i bond argentini, ci si aspetta che l’offerta di rinegoziazione comporti un taglio di valore intorno al 60%. È inoltre molto probabile che il governo argentino richieda di spostare in avanti, di due o tre anni, le prime scadenze del nuovo debito. Fernandez si aspetta infatti di raggiungere il surplus di bilancio nel 2023 e solo da quell’anno ritiene sia possibile iniziare a ripagare le nuove scadenze: per ora non ci sono state reazioni dei fondi creditori, che aspettano di avere un quadro più chiaro dell’offerta.
A differenza del default del 2002, però, le emissioni da rinegoziare hanno le cosiddette “Clausole di azione collettiva” e, pertanto, l’accordo con la maggioranza dei creditori sarà vincolante per tutti: non ci potranno essere nuovi casi di fondi avvoltoio che rifiuteranno qualsiasi tipo di offerta, lasciando il Paese fuori dai mercati internazionali a tempo indefinito. Ma l’offerta dovrà comunque essere soddisfacente: finché non è raggiunto l’accordo – e il debito non è di nuovo sostenibile secondo i criteri del Fmi –, l’Argentina sarà tagliata fuori da qualsiasi finanziamento esterno. Una condizione che, nonostante i controlli sui capitali, è sostenibile solo per alcuni mesi. Il tempo non gioca a favore del governo: l’ampio consenso elettorale potrebbe svanire in fretta se fosse costretto ad anticipare la stretta fiscale per riportare il bilancio in pareggio. Raggiunto l’accordo coi creditori, l’Argentina potrà negoziare col Fmi un nuovo piano di aiuti e chiudere la partita del debito, lasciando spazio al raggiungimento dell’obiettivo più complicato: riportare l’economia verso una crescita equilibrata, slegata dai cicli del prezzo della soia (la principale fonte di esportazione) e dai flussi e deflussi dei capitali stranieri. Sono questi gli squilibri alla base dei periodici default di un Paese dalle immense ricchezze, che già molti governi hanno promesso di correggere senza riuscirci.