Il Messaggero, 4 marzo 2020
Il crocifisso a Firenze è di Donatello
È alto appena novanta centimetri, scolpito in legno di pioppo, leggero (quasi tre chili e mezzo), ma da oggi pesante nella storia dell’arte per aver svelato il suo illustre autore. È stato attribuito a Donatello il Crocifisso ligneo della chiesa di Sant’Angelo nel piccolo borgo di Legnaia, alle porte di Firenze. Opera praticamente sconosciuta, appartenuta ad una congregazione, la Compagnia di Sant’Agostino, che ebbe sede all’inizio del Quattrocento nell’oratorio adiacente la chiesa. C’è voluto un lungo e complesso restauro, avviato alla fine del 2014 con fondi della Soprintendenza speciale di Firenze guidata da Andrea Pessina, per rivoluzionare l’interpretazione di questa scultura oggi riposizionata nel vestibolo dell’oratorio di Sant’Aurelio presso la chiesa. Ancora un Crocifisso che riserva fior di sorprese. È stato Gianluca Amato, giovane studioso, esperto di Rinascimento (con una tesi di dottorato sui Crocifissi lignei toscani fra tardo Duecento e prima metà del Cinquecento), a ricondurre l’opera all’estro di Donatello e alla sua bottega, tra le più attive e illustri del Quattrocento fiorentino.
GLI INDIZI CHIAVE
L’intervento di restauro, voluto fortemente dalla Soprintendenza di Pessina, eseguito da Silvia Bensi sotto la direzione scientifica di Anna Bisceglia, e frutto della collaborazione con il parroco della chiesa, don Giancarlo Lanforti, e con la Diocesi di Firenze, ha offerto ad Amato la possibilità di analizzare in modo approfondito i materiali e le tecniche di esecuzione della scultura. Passaggio chiave è stato, quindi, il confronto stilistico con il lavoro di Donatello. E per la datazione, lo studioso punta ai primi anni Sessanta del Quattrocento. Siamo di fronte, dunque, ad un’opera della tarda produzione del grande maestro del Rinascimento, probabilmente iniziata da Donatello e ultimata (anche perché oberato da molte commissioni) da un suo allievo, soprattutto nelle braccia che evidenziano un livello diverso di finitura e qualità. Ad aver attirato l’attenzione di Amato è stato l’intaglio del Crocifisso che ha svelato nel dettaglio riscontri puntuali con l’Oloferne del gruppo mediceo fiorentino della Giuditta (a Palazzo Vecchio, nella Sala dei Gigli). In particolare, i capelli e la barba, il corpo, il volto dolente e le labbra carnose del Cristo. Oltre a questi, spiccano le similitudini tra il perizoma, modellato in tela imbevuta di colla e di gesso, e il panneggio fitto della Giuditta. Il restauro ha permesso anche di riportare alla luce l’originaria cromia. Le indagini stratigrafiche compiute al microscopio ottico hanno, infatti, rilevato la presenza di ben cinque interventi pittorici sovrapposti, eseguiti in periodi differenti. E si è scelto di mantenere il colore dell’incarnato iniziale. La sua storia è legata alla devozione. La sua leggerezza era dovuta proprio all’uso processionale: doveva essere portato in mano dai fedeli durante le processioni.