la Repubblica, 4 marzo 2020
Manetti & Bellocchio fanno un film sul Klimt scomparso
L’amicizia tra Marco Bellocchio e i Manetti Bros (i fratelli autori di Ammore e malavita e dell’atteso Diabolik ) si fa sodalizio artistico per portare al cinema l’incredibile vicenda del Klimt scomparso dalla Galleria Ricci Oddi di Piacenza nel ‘97 e ritrovato lo scorso 10 dicembre in un anfratto all’esterno del museo. In questi 22 anni una ridda di ipotesi sulle sorti di Ritratto di signora : dai ladri acrobati fuggiti dal tetto alla setta satanica, la confessione di due detenuti e la sospetta preveggenza del furto nel diario del curatore, morto anni fa. All’appuntamento nello studio romano del grande regista colmo di copioni, libri fotografici e dipinti, ci sono Piergiorgio Bellocchio, attore e produttore e figlio di Marco, e Nicole, la figlia fotografa di Marco Manetti. L’aria che si respira è di famiglia, non solo artistica.
Sorride Bellocchio padre: «Tutto nasce da Piacenza, non penso che sia sfortunata ma vassalla rispetto a Parma, che si è sempre presa tutto. Detto ciò scherzosamente, il ritrovamento del Klimt mi è sembrato un segno di speranza e rinascita, un simbolo di movimento per l’immobile città che mi vede emotivamente molto coinvolto». Ne ha parlato con Piergiorgio e la Fondazione Fare Cinema, hanno convolto il critico d’arte Francesco Bonami e i fratelli Manetti. «I Bellocchio hanno prodotto il nostro primo film – racconta Marco – poi il rapporto si è saldato quando siamo andati a fare lezione alla sua scuola di Bobbio».
«Il Klimt è legato a un insieme di misteri stratificati – racconta Marco Manetti – il quadro è stato dipinto dall’autore sul ritratto di una ragazza con un cappello, di cui resta solo la foto in un catalogo del 1917». Aggiunge Antonio: «A un certo punto fu anche ritrovato dai carabinieri, ma era un falso, su un treno in viaggio verso Craxi, ad Hammamet. L’ipotesi è che il quadro sia stato rimesso nell’intercapedine per essere trovato, viste le buone condizioni». L’idea è che, come accaduto per la mitizzazione della Gioconda, rubata da un italiano e ritrovata dopo un anno (sulla storia sta girando un film Jodie Foster), ora il mistero valorizzerà il Klimt e attirerà l’attenzione sulla Galleria e su Piacenza.
Il film sarà prodotto dalla Mompracem dei Manetti e Carlo Macchitella più Fare Cinema ma, chiarisce Bellocchio, «si tratta di un progetto disinteressato: cerchiamo un regista giovane e visionario. Sarà interessante vedere tre generazioni a confronto». «L’idea è di fare una grande lavoro di ricerca, poi però – ora è Marco Manetti – un film non è solo il resoconto del reale. Noi e Bellocchio siamo diversi per stile e idee, ma tutti lontani dal cinema italiano che cerca la cronaca, il neorealismo: Il traditore racconta di Buscetta ma è prima di tutto un film di Bellocchio».
Concordano sulla difficoltà del connubio tra pittura e cinema. Marco Manetti cita La sindrome di Stendhal di Dario Argento come esempio, non pienamente riuscito, di «restituire la sensazione di un quadro sullo schermo». Bellocchio pensa al Van Gogh di Julian Schnabel e a quello di Kirk Douglas. Antonio Manetti è rimasto colpito da Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmarck.
In comune il trio ha l’essere cresciuto tra pennelli e pittori e aver divorato i fascicoli dei Fratelli Fabbri, ora allineati su un’alta libreria dello studio. Bellocchio: «Mia madre suonava il piano e dipingeva nature morte, mio fratello aveva talento ma lasciò la pittura per motivi personali. Io abbandonai i pennelli quando scoprii al Centro sperimentale l’immagine in movimento. Ho conservato la passione per il disegno». A testimoniare la fase restano cinque quadri nello studio. Tra le opere che ama c’è la Natività di Caravaggio: «In Il traditore avevo inserito una scena in cui il quadro rubato veniva dato in pasto ai maiali dai mafiosi, poi ho saputo di Una storia senza nome di Roberto Andò e l’ho tolta». Tra le sue ispirazioni cita l’opera di Munch e l’Espressionismo, pittorico e cinematografico. Marco Manetti indica uno dei dipinti appesi: «Qui si capisce l’influenza di Cézanne, amato anche da nostro padre pittore. Da piccoli ci portava a Parigi alle mostre degli Impressionisti e a Firenze a guardare per ore i quadri di Pontormo». Il talento da pittore in casa Manetti ha saltato una generazione, spiega Antonio: «Mio figlio Alessandro, 22 anni, è a Brera a studiare pittura. Dovrei essere preoccupato, sarebbe meglio ingegneria. Invece sono felice. Dipinge come il nonno, anche se lo nega».
In Diabolik, rivela Marco Manetti, c’è una testimonianza della loro passione: «Sullo sfondo di un dialogo importante tra Miriam Leone (Eva Kant, ndr ) e Alessandro Roja c’è un quadro che campeggia in modo anche invadente. Lo abbiamo scelto perché lo amiamo moltissimo e perché la sua estetica è legata all’epoca del film. Lo abbiamo fatto venire a Bologna dalla Calabria. È il ritratto che nostro padre ha fatto a nostra madre».