Corriere della Sera, 4 marzo 2020
Intervista a Elio Germano
A dieci anni dalla Palma a Cannes Elio Germano con Volevo nascondermi, il film su Ligabue di Giorgio Diritti (esce oggi, prodotto da Rai Cinema e Carlo Degli Esposti), ha vinto l’Orso alla Berlinale. Ha 40 anni e sembra sempre un ragazzo: ma quando parla sono rasoiate di intelligenza e maturità. È un attore che dice «noi» e non «io», lotta contro la retorica dell’«antidivo che vive in periferia» e la massificazione del gusto, cerca la verità nelle sue scelte.
Il premio a Berlino è una boccata d’aria dalle commedie, c’è un altro cinema?
«È un momento bello per l’Italia, non è il remake di quello che si aspettano da noi all’estero, questo è un film coraggioso e non vuole somigliare a niente e nessuno. Non cerca solo l’applauso e l’incasso. Si sta tracciando una nuova linea del cinema italiano, è un filone di libertà».
La paragonano ancora a Mastroianni?
«C’è chi ha notato che, anche lui, come attore o in un film, aveva vinto a Cannes e a Berlino. Non mi piacciono mai i paragoni, figuriamoci coi mostri sacri. Ognuno ha le sue caratteristiche. I premi vengono dati ai film anche quando li ritirano gli attori. Vinciamo in rassegne internazionali dove vedi film azzardati e estremi che in tanti casi anche noi che facciamo cinema non vedremo mai. È un mezzo che offre tante possibilità ma di rado prendiamo rischi, siamo incanalati in standard americani, con film che si somigliano tutti».
Lei ci lavorò...
«Ho fatto esperienze che non ripeterei, ho difficoltà con modalità da grande industria dove si annienta il lato umano. Per Nina di Bob di Marshall in 25 giorni ho fatto due scene, in Italia ci facevo due film. La creatività è l’unica cosa che ci caratterizza».
Dicevano il Robert De Niro italiano, ricorda?
«Non mi piace la trasformazione fisica all’americana, l’esibizione dell’attore come un trofeo. È un lavoro di squadra, l’attore è a disposizione della storia, deve farci cadere dentro lo spettatore».
Il suo è uno dei pochi film che esce sotto coronavirus.
«Il cinema è conoscenza e cultura, che sono l’unico antidoto. Il contagio vero è la paura, è un virus che non si combatte senza mascherina. C’è una psicosi devastante, alimentata da tante persone. Spegnete i cellulari e la tv e riaprite i cinema. Ligabue, un artista dall’aspetto mostruoso ma con quell’anima lì, che ha trovato la sua strada nella pittura, è un inno alla vita».
È come se le sue origini dessero corpo al suo modo di vivere il mestiere...
«Non vorrei alimentare una mitologia popolare, ma sì, mio nonno faceva il portiere in un palazzo dove abitava quella che chiamava l’attrice: era Jole Silvani, lavorava con Paolo Poli. La questione non era diventare attore. Mi era capitato di fare cose di teatro da ragazzino. Mi ritrovai un po’ per caso in una scuola di teatro. Non volevo farlo come lavoro. Avevo 14 anni, c’era gente di 40. Per tanti era un’esperienza fine a se stessa».
Suo nonno, che fece anche il muratore, è stato importante per lei?
«Quando partì militare disse, con l’uniforme avrò le mutande. Sono cresciuto in una famiglia del Molise non agiata, frutto di emigrazione, Argentina, USA, Germania. Io sono il primo nato a Roma. La condizione era pesante e drammatica come quella di chi sbarca oggi: lo fai perché non riesci a mangiare a casa tua. Vengo da questo contesto e ne sono grato perché mi ha trasmesso certi valori. Ogni mio parente che arrivava in un posto lontano ne chiamava un altro. Io alla Berlinale ho fatto una dedica all’orgoglio degli immigrati. La povertà aiuta perché insegna che nel lavoro non c’è vergogna. Mio nonno diceva: sono i pensieri, non il lavoro, che ammazzano le persone».
Lei vive in periferia ed è nata, come dice lei, tutta una mitologia popolare...
«È un meccanismo che non capisco, qual è il simbolo che si vuole cercare? È sbagliato ingenerare l’idea che io usufruisca di case popolari, sarebbe ingiusto per chi vive lì. Non dormo sotto i ponti, pago il mutuo e tengo alla mia privacy. Ci sono strutture abbandonate (cinema, parchi giochi) e partecipo a cose che avvengono nella socialità, che non è quella dei social media. Cerco di essere il più social possibile dal punto di vista umano. Nel quartiere in cui vivo, ho inciso un cd col mio gruppo rap, Bestie rare, un modo per far funzionare quei luoghi col lavoro».
I fratelli D’Innocenzo, anch’essi con un premio da Berlino, ringraziano di essere cresciuti in periferia.
«Loro dicono che lì si cresce prima e hanno ragione. Oggi le città hanno i centri storici a disposizione dei turisti e non sono più abitati dai residenti. E i centri si somigliano tutti. I D’Innocenzo, si dice che sono anticonvenzionali e non si parla mai della loro cultura, sono onnivori, curiosi, quando mi hanno cercato sapevano di un mio racconto nel 1998... Non sono dei parvenu. Il loro film è potente perché c’è il voler sembrare quello che non siamo».