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 2020  febbraio 28 Venerdì calendario

Su "Io sono il potere" di Anonimo (Feltrinelli)

Io sono il Potere dio tuo: quindi senza nome e senza volto, come si presenta l’autore di questo libro che per la prima volta disvela dall’interno ciò che oggi va di moda definire Deep State, lo Stato Profondo. La sala macchine e insieme il retrobottega dell’amministrazione pubblica: quell’entità che invisibili addetti hanno il potere di fare andare avanti con norme scritte e con creti atti di governo, ma che pure con i medesimi mezzi possono bloccare, o magari differire, oppure deviare, o addirittura inceppare senza che nulla appaia alla luce del sole; e comunque sempre in nome di quella Tecnica che formalmente è al servizio delle Istituzioni, ma in pratica si pone al di sopra dei politici, a loro volta valutati dall’autore con "ferocia darwiniana", giacché i ministri passano, mentre "per noi c’è sempre un dopo". È il mondo dei capi di gabinetto, dei maghi degli uffici legislativi, della vera e misteriosa Casta di color che sanno, consiglieri e avvocati di Stato, magistrati dei Tar e della Corte dei Conti, consiglieri parlamentari, gabinettisti raccontati maliziosamente alle prese con gli smaniosi capricci e le goffe ottusità dell’odierna classe di governo. È uno di questi mandarini che il giornalista Giuseppe Salvaggiulo ha convinto a vuotare il sacco, anche se l’impressione è che non aspettasse altro, colmo com’era di nozioni sulle virtù e le male arti del "kamasutra normativo".

Ecco perciò astuzie e trucchi lessicali ("In attesa del riordino della materia..."), pareri e codicilli di inavvertito, ma devastante impatto, regolamenti nati morti o avvelenati, deleghe oblique, spacchettamenti a rimbalzello, inammissibilità a geometria variabile; il tutto culminante nell’affannosa misteriosofia della Legge di bilancio: soldi, soldi, soldi, naturalmente pubblici, che per conto dei rispettivi ministri i capi di gabinetto si contendono a suon di bozze segrete, file posticci, "bachi" per individuare le fughe di notizie. Ed è come se un lampo rompesse l’oscurità che un giorno spinse un esasperatissimo Berlusconi a invocare: "Ma che cazzo è questa bollinatura?". Dunque: Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto (Feltrinelli, 287 pagine comprensive di un lodevole e promettente indice dei nomi).

Chi è convinto che si governi con i tweet e le dirette Facebook non apra proprio questo libro - per quanto farebbe meglio a studiarselo e non solo perché, come diceva la nonna, le apparenze ingannano e sotto la più vistosa fuffa si nasconde il senso ultimo delle scelte. Se la politologia americana, da Murray Edelman in poi, ha approfondito il ruolo degli staff, nell’Italia della commedia e del melodramma si può essere grati a questa ignota testimonianza. Abbandonandosi dunque a un’antropologia di tristi tropici ministeriali fatti di piccoli piaceri e ricche parcelle, anticamere e salottini un po’ sdruciti, la cernita di mobili e cimeli nei sotterranei, il mercato degli autisti, la somministrazione delle spese di rappresentanza, i biglietti omaggio all’Olimpico, fino alla tritatura dei documenti. Una classe eterna e in via di aggiornamento, vedi l’uso di Telegram e degli integratori, l’aperitivo da Camponeschi, gli scooteroni e gli zainetti che fanno il capo di gabinetto smart e young.

Un’umanità in egual misura leale, insostituibile e maneggiona cui tocca far marciare le concrete decisioni della politica districandole in quell’"ordalia burocratica" che tanti spasmi seguita a fornire anche alla letteratura, dal fondamentale Misteri dei ministeri (1952) di Augusto Frassineti, al recentissimo e sapido È nato prima l’uomo o la carta bollata? (Rai Libri) di Alfonso Celotto, passando per certe indimenticabili pagine di Flaiano sulla fatidica invasione barbarica: "la discesa dei Timbri". Perché tre, elenca con pazienza l’Anonimo, sono le risposte classiche che ci si sente di norma rivolgere dai direttori generali: "Non è possibile", "È impossibile", "È assolutamente impossibile"; per poi concludere: "Se ti dimostri titubante ti mangiano vivo".

Ma è nei riguardi della classe politica che l’orgoglio d’élite, pure rafforzato da orditi dinastici e coniugali, si traduce in una superiorità che sfuma nel disprezzo - ed è il tratto più malevolo e godibile del libro. Chi manca di rispetto alla casta la paga cara. Così Giulio Tremonti che volle avere al suo fianco un ex ufficiale della Guardia di Finanza "laureatosi a 46 anni" se lo ritrovò subito "isolato come portatore di un virus pestilenziale", e nessuno gli rispondeva al telefono. Idem Matteo Renzi, che venne a Palazzo Chigi con "la vigilessa" e quando provò a pubblicare in Gazzetta Ufficiale un decreto dal titolo Per un’Italia più semplice e veloce, fu sconsigliato perché suonava come "un film della Wertmüller". Idem Giggino Di Maio, troppi compaesani; peggio che peggio il tragicomico staff di Virginia Raggi, non a caso autonominatosi in chat Quattro amici al bar.

Depositari della residua cultura istituzionale, va da sé che i gabinettisti tramandino nei loro circuiti maldicenze fin qui ignorate dai più pettegoli retroscenisti. Qualche perla: la bella ministra che in esotico viaggio di nozze scoprì il marito a letto con un cameriere indigeno; o quell’altra di cui si sparse voce che partecipava al Consiglio dei ministri senza mutande; una reazione di Tremonti a Letizia Moratti: "Questo è il governo, non tuo marito!"; le conseguenze anche diplomatiche dei colpi di sonno di Silvio Berlusconi; le peripezie della legge per istituire la carica di emerito presidente della Repubblica (si dovette aspettare la morte di Giovanni Leone che si opponeva: "Ma lo sapete a Napoli che significa "emerito?""); le bestemmie dispensate durante le riunioni di governo da Emma Bonino, e quando Francesco Rutelli e Linda Lanzillotta inorridivano chiedendo a Romano Prodi di intervenire, ecco che lei ci dava ancora più dentro, "porca ostia!".

E tuttavia, anche per chi ritenga secondario, se non disdicevole, questo ravanare intorno a tali aspetti della vita pubblica, le confessioni del capo di gabinetto offrono singolari e spesso inedite ricostruzioni sulla vera storia del colpo di spugna del primo governo Berlusconi, per dire, o sul decreto "a favore" di Eluana Englaro; come pure a proposito della lettera emessa dalla Bce nell’estate del 2009 e ricevuta non si è mai capito bene come e da chi, oltre alle varie manine e manone che nel corso del tempo senza posa cercavano di inserire sgravi fiscali o depenalizzazioni a favore di Mediaset. Tutto o quasi appare qui plausibile. In primo piano si stagliano, descritti con irresistibile e irriverente nitore, le figure dei commis de l’État, a cominciare dal capostipite, Gaetano Gifuni, o dal suo massimo erede, l’attuale e sfuggente segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti. Un formidabile capitolo è dedicato a Gianni Letta, proclamato con impegnativa enfasi: "L’unità di misura del potere più precisa e immutabile che ci sia, come la barra di platino e iridio conservata a temperatura costante di zero gradi nel Bureau international de poids et mesures a Sèvres".

Uno dopo l’altro danzano e zompettano sullo scivoloso proscenio del comando uomini decisivi come il leggendario Enzo Fortunato, la cui prudenza lo portò a dimettersi prima di far firmare una nomina Rai che sapeva illegittima (e lo era); o l’asciutto, elegante e un po’ arrogante Roberto Garofoli che non molto tempo fa, a ragione ma in pubblico, si è concesso di interrompere e dare torto al presidente Conte; e a chi si complimentava ha risposto: "Allora non sapete che cosa facevo con Renzi". E ancora l’anziano, ma efficientissimo Zaccardi, il vulcanico Giampaolino, il poliedrico Spadafora, il prezzemolino Ceresani, o Carbone che scorrazza in monopattino per i lucidi corridoi dell’Economia.

E poi c’è lui, l’Anonimo. Non si cascherà nella trappola del "chi è?". Al netto degli indovinelli, si capisce che è un uomo sottile, ma vuol sembrare molto raffinato e idolatra il potere fino a bearsi di incontrare Marta Cartabia che corre a Villa Borghese. Insieme a una vena pedagogica, nelle sue funzioni e relazioni coltiva un freddo e misurato realismo, senza sbotti di tracotanza né palpiti di pietà. Ma è di certo un uomo assai spiritoso: il racconto di Sandro Pertini che, costretto da un’urgenza fisiologica, chiude di botto un incontro con Jacques Chirac riprendendosi per sbaglio il dono e restituendo ai francesi il loro è sublime; così come l’odissea burocratica cui il ministro Alfonso Pecoraro Scanio sottopose il proprio capo di gabinetto per salvare certi cavalli dell’esercito e farsi bello con gli animalisti - ma dall’intricatissimo iter restò fuori un mulo - è degna di un soggetto di Rodolfo Sonego per una commedia all’italiana con Alberto Sordi.

Eppure, come risucchiato da un gorgo di compiaciuto autolesionismo, l’Ignoto racconta i propri sogni e in turbinante metafora esprime a nome di tutti l’essenza del servizio: "Ci dobbiamo anche far piacere le minestre insipide e le paste scotte, ma solo con la certezza di avere sempre una bottiglia di champagne in fresco". Onore infine al confessore, Giuseppe Salvaggiulo, che pure del potere è appassionato, ma come un pericoloso ordigno che alla fine è meglio perdere che conquistare - anche se in fondo quel lavoro lì qualcuno deve pur farlo.