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 2020  marzo 03 Martedì calendario

Seguendo la campagna elettorale di Bloomberg

Sono nel centro nevralgico della campagna Bloomberg, 229 West 43esima strada. È da questo immenso spazio, ottavo piano, ex sede storica del «New York Times», che circa 600 persone coordinano nel minimo dettaglio l’offensiva elettorale per il Super Tuesday, la partita decisiva che si giocherà oggi in 14 Stati per la nomination democratica di «Mike 2020». Ed è qui che in pochi mesi, partendo da una «piccola» struttura di 200 persone, si è costruita in pochi mesi la candidatura Bloomberg. L’obiettivo? Ostacolare Bernie Sanders, conquistare il centro del partito spiazzando Biden e aggiudicarsi la candidatura democratica per la Casa Bianca 2020 in una «brokered» Convention, una soluzione di compromesso a luglio a Milwakee.
La «piramide»
Il colpo d’occhio è impressionante: spazi enormi, pilastri color vinaccia, schiere di tavoli e computer assiepati gli uni davanti agli altri, alcune stanze private, schermi TV accesi a manifesti pro Bloomberg. Nella parte centrale, a ridosso dell’ingresso, si snoda l’area mensa, che fa anche da sala assembleare. Il giorno chiave è il venerdì. Attorno alle 16,30 ci si riunisce tutti. Parlano i leader, Kevin Sheekey il capo della campagna, già capo di gabinetto di Bloomberg in azienda, e Patty Harris, l’altro personaggio chiave di Mike, a capo della Bloomberg Foundation. Sono le due persone da sempre più vicine all’ex sindaco e quelle da cui si dirama la piramide organizzativa, 200 uffici sparsi intorno al Paese, 2.400 persone, tutti professionisti fra i migliori nel loro settore. E sono pagati meglio di quanto pagherebbe il settore privato. Gli stipendi variano mediamente fra gli 80 e i 200.000 dollari. Per chi arriva da fuori città c’è un appartamento a disposizione e rimborsi spese. In sede ci sono gratis tre pasti al giorno, pasti all’americana, semplici, pizza, hamburger, pasta, cinese o giapponese in arrivo da ristoranti di quartiere. E poi bibite, caffè, snack di ogni genere, e quelli ci sono sempre. Una macchina gigantesca insomma che da sola, oltre a mobilitare l’elettorato, dimostra quanto Mike Bloomberg, che si è fatto dal nulla, si affidi a una struttura, a esperti, allo studio, al lavoro di squadra a un’impostazione razionale e informata per risolvere crisi e problemi. L’opposto di Donald Trump insomma, disordinato, improvvisatore, manipolatore, convinto di sapere tutto e in grado di vendere benissimo questa sua immagine di tuttologo decisionista a una parte degli americani. È su questa dicotomia che oggi si combatte. Con un altro messaggio che traspare da questa macchina organizzativa: in caso di una nomination e di una vittoria a novembre Bloomberg sarà in grado di organizzare la sua amministrazione nel giro di poche settimane (non mesi come capitò con Trump), riempendola di teste d’uovo Kennedy style. È qui, insomma, che ogni giorno, oltre a gestire l’offensiva elettorale, si fanno le prove generali per amministrare il Paese e si approvano spese da capogiro.
Per lo scontro elettorale di oggi, con 1.357 in palio dei 3.979 delegati disponibili Bloomberg ha già speso in due mesi 500 milioni di dollari soltanto in campagne pubblicitarie televisive a tappeto, contro i 300 di Obama in due anni! La tensione in sala è ovviamente forte perchè dopo i dibattiti poco soddisfacenti dell’ex sindaco di New York, i sondaggi a favore di Bloomberg sono improvvisamente scesi. Soprattutto in California, stato chiave con ben 415 delegati disponibili. Ma Bloomberg è oggi al di sotto del 15%, al di sotto cioè della soglia minima di preferenze per poter accedere a delegati. Eppure ce l’aveva quasi fatta: i venti uffici locali nel Golden State, le campagne a tappeto le strategie digitali multimediali, l’ingaggio di influencers e di meme lo avevano portato al secondo posto e al 16-17%. Ora è al 13,3%, dietro Sanders (33%), Biden (15,3%) e persino la sua nemesi, la Warren (14,7%). 
«Qui tutto è possibile»
Il pericolo che qui a Times Square si cerca di scongiurare è quello di non prendere neppure uno dei 415 delegati. In Texas, il secondo stato più importante con 222 delegati, va meglio, Sanders è sempre in testa con il 29,7%, Biden segue con il 20.8% ma Bloomberg è ancora al terzo posto con il 18%. Se Mike è riuscito comunque a conquistare queste posizioni di testa lo si deve soltanto alla sua grande macchina organizzativa che ha potuto mettere insieme grazie ai suoi fondi pressochè illimitati: con 60 miliardi di dollari di patrimonio, Bloomberg è al nono posto nella classifica dei più ricchi del mondo. E spendere un miliardo o due non gli cambia nulla se, come ha detto, «in gioco c’è il futuro del nostro Paese. Sono sceso in campo perchè non credo che nessuno dei candidati possa battere Trump. E batterlo è fondamentale se vogliamo preservare i valori e la grandezza degli Stati Uniti d’America». «Qui succede una cosa incredibile, mai vista in politica - mi dice uno dei collaboratori – non si chiedono soldi e non ci sono limiti a spese. Tutto è possibile».
E tutto torna qui, sulla 43ª, dentro una delle più potenti organizzazioni elettorali mai viste in America. Domenica scorsa a CBS 60 minutes, Bloomberg ha detto: «Sono vent’anni che mi preparo a questo momento e alla formazione di questa squadra». Non esagera. L’impostazione della campagna è organizzata a matrice, con la parte operativa guidata da Sheekey, che fu anche vice sindaco di New York per gli affari politici. A lui fanno capo logistica, media, pubblicità, stampa, temi politici, economici e sociali, campagna digitale e così via. Poi c’è Patti Harris, che segue i rapporti politici e personali sviluppati dalla fondazione Bloomberg attraverso decenni di lavoro filantropico, grazie a una dotazione di 10 miliardi di dollari! Attorno alla Fondazione ci sono già i migliori esperti per l’urbanistica, per la sanità, per l’ambiente, per il controllo delle vendite di armi e così via. Solo nel settore educativo la fondazione ha donato oltre 300 milioni di dollari a 196 città. Relazioni che oggi diventano molto importanti. E Harris e Sheekey lavorano di sponda e in perfetta sintonia.
La lotta fino alla fine
Basterà ora che si è arrivati alla fermata più importante? La gigantesca macchina elettorale di Bloomberg ora lavora a pieni motori per chiudere il gap in California e tornare al 15%. Michael Bloomberg non sarà un talento televisivo naturale, ma è certamente in grado di gestire il Paese delegando i poteri. La volontà, lo spirito, la determinazione ci sono tutti in questi quartieri generali della campagna Bloomberg. Lo si sente nell’aria. Anche perchè se si andrà avanti, se davvero si potrà vincere, si dovrà poi lavorare per la Nazione. Intanto arrivano le notizie: pete Buttigieg e Amy Klobuchar si sono ritirati. Un gesto altruista per il partito, per non danneggiare il centro. Bloomberg sa benissimo di rischiare un boomerang: se dovesse frenare Biden in ascesa rubandogli i voti del centro, lascerà la strada spianata a Bernie Sanders, troppo a sinistra per convincere il Paese a dargli un mandato. E vincerà Trump! Ma Bloomberg non si lascia distrarre: «La corsa continuerà dopo il Super Tuesday – ha detto ancora a 60 minutes – e io ci sarò fino alla fine». E se invece decidesse di uscire? La macchina elettorale della 43esima strada resterà intatta, questa volta al servizio del partito e del candidato vincente, anche se fosse Sanders, perchè l’obiettivo resta quello originario: battere Donald Trump a novembre e restituire l’America al suo destino di potenza buona, tollerante e illuminata.