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 2020  marzo 03 Martedì calendario

Emilio Solfrizzi: «Sfido Federer a teatro»

C’è una partita incredibile che Roger Federer gioca a sua insaputa, su un terreno insolito: il teatro. Lo sfidante è Emilio Solfrizzi, 57 anni, barese, fiction di successo (Tutti pazzi per amore). Di mezzo, il tennis metafora della vita, e Federer icona dello sport. Si chiama semplicemente Roger lo spettacolo da giovedì a Roma al Piccolo Eliseo. La scena è scarna: le righe di un campo da tennis, le sedie, neppure la racchetta. Sul palcoscenico, solo Solfrizzi, che declina un monologo scritto e diretto da Umberto Marino.

Solfrizzi, lei amerà il tennis e Federer, giusto?
«No. Il malato di tennis è Umberto Marino, che nella vita avrebbe voluto fare solo questo. Sapeste quanto si arrabbia quando perde».
Contro di lei, magari.
«No, io sono nato a Bari, ala sinistra
calcistica. In comune con Cassano lo stesso quartiere di provenienza».
E cosa c’entra col tennis, scusi?
«Sgombriamo gli equivoci: Roger è un potentissimo atto d’amore del tennis, ma parla dell’umanità.
D’altronde non avrei mai potuto accettare di interpretare in scena Federer, non ne ho l’età e il fisico: anzi, il fisico che lui ha oggi io non l’avevo nemmeno a 20 anni».
Si parla dell’umanità ha detto?
«Certo, usando Roger come nome che travalica il suo stesso titolare: Federer è il simbolo del tennis e ne è felice. Il suo nome parla del tennis a prescindere dall’uomo».
Come si fa a sfidare Federer a mani nude?
«Lui è evocato, ma il protagonista è ‘Numero Due’. Un giocatore che non ha un nome, vive su un campo di tennis non si sa da quanto tempo, indossa una maglietta ormai lisa, ha superato i 50 anni e aspetta di giocare la sua partita».
Quindi si parla dei perdenti.
«Che non siamo poi tutti noi? Cioè quelli che non saranno mai Numeri Uno? Che giocano tutti i giorni, ma hanno una attrazione fatale per le divinità e i loro gesti fatati? Eppure l’umanità gioca la sua partita sapendo di perderla, come se non finisse mai. Perché siamo attratti dal bello. Cioè da Roger».
Intrigante, ma complicato.
«Cerchiamo di raccontare tutto in modo divertente. Numero Due prova a giocare la partita, le pensa tutte per vincere e quando tocca il fondo diventa buffo, tenero. E noi ci riconosceremo in lui. La novità è che il monologo è declinato con il linguaggio del tennis, che diventa significante. Ma è comprensibile a tutti. Anche a un autodidatta come me. Ripeto: lo show è una partita.
Ma senza la racchetta. Perché ci siamo accorti che qualsiasi oggetto avrebbe appesantito la narrazione e la potenza evocativa delle parole e dell’attore. Sono come i cuntastorie siciliani di una volta».
Quindi Roger vince di nuovo.
«Io non l’ho detto. Dico che è una fatica allucinante, questa partita immaginaria. Ma in fondo, l’avversario nel tennis, non sei te stesso tante volte? E comunque: si può vincere una partita contro un’entità?».
Qual è l’insegnamento, alla fine?
«Lo decide lo spettatore. Io mi accontento del fatto che esca dal teatro divertito. Il senso delle cose non va cercato a ogni costo, ma ripeto, ci si può riconoscere: si parla delle difficoltà della vita, che è piena di righe, come il campo di tennis. Dove siamo noi che decidiamo quale partita giocare, e questo io lo trovo commovente».