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 2020  marzo 03 Martedì calendario

Niccolò “Tornerò in Cina

COLLE VAL D’ELSA (SIENA) — La prima buona notizia: Niccolò sta bene, può vantare un record di sei tamponi negativi. La seconda è che stasera andrà a Grado alla festa di una sua amica. La terza? Beh, per la terza bisognerà aspettare, ma di certo Niccolò tornerà in Cina. A Wuhan a ringraziare il volontario Tian, che lo salutò l’ultima notte, nell’aeroporto desertificato dicendo: «Ciao, ci rivediamo». Più a Nord, a Daqing per incontrare la famiglia che lo ha ospitato. «E poi per studiare ancora, ero partito per quello”.
Si stappano bottiglie della sede della Onlus Intercultura, a Colle Val d’Elsa. Senza saperlo, Niccolò diventa una specie di anti-Zaia. «Quante stupidaggini. I miei genitori ospitanti – Li Jun e Jiang Xian Xian – bevevano vino veneto. Il virus non ha colori e non guarda in faccia nessuno. C’è un virus più pericoloso, ed è quello del razzismo».
Il segretario generale di Intercultura Andrea Franzoi ricorda senza enfatizzare recenti casi di bullismo contro studenti cinesi, in Sardegna e Campania. E Niccolò che dice? «Resto senza parole». Sta tornando alla sua dimensione preferita, un ragazzo appassionato d’Oriente che aveva voglia di fare un’esperienza all’estero. «Per giorni ho guardato i tg che parlavano di me, stranissimo». Per giorni è stato una specie di soldato Ryan, con il ministro degli esteri che diceva: «Lo riporteremo a casa».
Ora è appena uscito dallo Spallanzani: era in isolamento, aveva tv e pc. E la prof. Romeo (Filosofia) gli aveva fatto avere gli appunti da studiare. Va verso casa, finalmente, e può raccontare: il prima e il dopo, il bianco e il nero di un soggiorno di studio in Cina. Il prima: una scoperta quotidiana, anche di materie strane come la cucina o la calligrafia. E la famiglia: «In questo mi sono sentito a casa, un grande senso di comunità: con tanti piatti, i vecchi saggi che possono parlare e i giovani che devono ascoltare». Viene in mente il film “Farewell”, con quella immensa tavola rotonda, i nonni e i bisnonni: «Altro che involtini primavera e biscotti della fortuna: nella Cina che ho visto io non esistono. Invece ogni venerdì mi facevano trovare i ramen con la carne e l’anatra alla pechinese, come forse sapete ha bisogno di qualche giorno di preparazione. A scuola avevamo tre turni: sveglia per me alle 5.45, studio fino alle 20.10 con vari break. Più stancanti le cinque ore consecutive in Italia. La professoressa Yu ha seguito il nostro percorso, quasi un’amica. Ho anche viaggiato tanto, sono andato sulla costa, a Dalian. E peccato per quello che è successo dopo, avevamo in programma con la famiglia ospitante un altro viaggio, a Shanghai».
Qui Niccolò ha il suo piccolo appuntamento con la storia. Per il Capodanno cinese, la sua famiglia decide di andare a trovare i nonni a Sud, nella provincia di Hubei. L’aeroporto di Wuhan è l’ultimo segno di modernità. «Poi scopro una realtà di cento anni prima. Un villaggio di 50 case, un pianterreno a 5 gradi con il pollaio, una cucina nuova mai utilizzata, e fuori un calderone con la legna sempre acceso, per scaldarsi e prepararsi da mangiare».
E si passa al dopo, a quando mamma Jessica chiama Niccolò per dirgli che ha letto di una epidemia in Cina. No, non può essere proprio lì, la Cina è enorme. E invece. «Io cerco di informarmi: Li Jun e Jiang Xian Xian mi rassicurano: siamo in campagna, qui non arriva nulla. È passato più di un mese e loro sono ancora lì, fra l’altro. Io comincio a informarmi, più che i giornali comincia a parlare il governo, WeChat apre una sezione sul coronavirus. E io, pur circondato di affetto, mi ritrovo solo davanti a una decisione da prendere: tornare subito, prima che chiudano tutto. È il 27 gennaio, e voglio prendere quell’aereo non tanto per me, quanto per la mia famiglia». «Il medico del villaggio mi misura la febbre, 37, un comune raffreddore, dice lui. Io forse mi faccio prendere dall’ansia. All’aeroporto otto ore di attesa, mi metto nel punto più lontano: lo scalo è aperto solo per i voli di rimpatrio. Mi fermano davanti allo scanner termico e mi dicono: vieni giù, dobbiamo farti altri controlli. Mi misurano la febbre altre quattro volte, e poi decidono di rimandarmi all’ospedale di Wuhan».
«Sono stato nel focolaio dei focolai, e non ho preso nulla, semplicemente perché ho adottato delle semplici precauzioni. In ospedale mi hanno fatto Tac, prelievi e tamponi: ho capito che dicevano: “Non può tornare in Italia”. E così sono riandato fuori, affidato al volontario Tian, che veste sempre con tuta e una specie di scafandro ma davanti a un hamburger se la toglie per non spaventarmi».
«Ritorno in aeroporto sabato 8 febbraio, e c’è un volo dell’Inghilterra, anzi del Regno Unito su cui potrei trovare posto. Ma lo scanner termico tradisce ancora, ci mettono dieci minuti a trovarmi una vena, e il Regno Unito dice no. Torno in hotel con Tian. Una settimana dopo, il volo attrezzato mi riporta in Italia, intubato. Due settimane di quarantena, anche in compagnia di un libro: la storia di un paraplegico che attraversa l’Atlantico in catamarano, il senso è quello di non arrendersi mai».
La storia di Niccolò ha un lieto fine. E se al ristorante dicono: «Siamo obbligati a chiedere se qualcuno di voi è stato nella zona rossa», la sua risposta è un bel sorriso: «No, negli ultimi quindici giorni non c’è stato nessuno».