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 2020  marzo 03 Martedì calendario

L’indifferenza per il referendum

Messo in ombra dall’angoscia collettiva per il virus, degradato a evento secondario a causa della recessione in arrivo, il referendum costituzionale del 29 marzo è un po’ il mistero di questi mesi. Se ne parla poco o niente, è quasi scomparso dai notiziari, sembra interessare solo a un’esigua minoranza. Addirittura qualcuno ha proposto di rinviarlo, un po’ per la psicosi in atto ma anche per l’indifferenza che suscita. Strano, dal momento che la riforma con cui sono stati sforbiciati 345 parlamentari eletti su un totale, tra Camera e Senato, di 945 fu votata da una grande, trasversale maggioranza. Il taglio riguarda il 26 per cento di deputati e senatori, più di un quarto del totale. È un’innovazione radicale, in grado di modificare in modo significativo il rapporto tra cittadini e istituzioni, non necessariamente in meglio. Finora l’Italia aveva un rapporto tra eletti ed elettori simile a quello delle maggiori democrazie europee: alla Camera un eletto ogni 96mila elettori. Con il taglio, avremo invece un eletto ogni 151mila elettori: come dire 0,7 deputati ogni 100mila. A parere di chi ha votato la riforma, o almeno di chi l’ha concepita, dovrebbe trattarsi di un progresso: meno parlamentari uguale meno “casta”, meno sprechi, meno corruzione. Un’idea che trasuda disprezzo verso la democrazia parlamentare e le sue liturgie, nelle quali intravede solo una “perdita di tempo”. Chi ha votato la riforma ha condiviso questa linea masochista? In realtà la battaglia l’ha fatta il M5S, l’unico che ha il diritto d’intestarsela nel bene e nel male. Altri, soprattutto a destra, si sono aggregati per istinto populista e per seguire lo spirito dei tempi. Altri ancora, come il Pd, dopo aver votato “no” nelle prime tre letture si sono convertiti al “sì” nell’ultimo passaggio alla Camera. Come mai? Perché, fu detto, erano arrivate le garanzie di “riequilibrio istituzionale” che il centrosinistra aveva chiesto. Ma a distanza di mesi nessuno ha capito quali fossero tali “garanzie”. In realtà il partito di Zingaretti temeva di perdere il contatto con i 5S, suoi nuovi alleati, e ha preferito buttare la palla avanti. Alla fine sono stati pochissimi ad avere il coraggio del “no”: i rappresentanti di PiùEuropa e alcuni casi di coscienza. Rimane l’impressione che la maggior parte di chi ha detto “sì” non fosse granché convinta. Lo ha fatto per opportunismo, al punto che oggi si defila e fa mostra di ignorare la scadenza del 29. Del resto tutti danno per scontato che vincerà il taglio, come dubitarne? Fare campagna a favore del “sì” vuol dire solo portare l’acqua al mulino dei Cinque Stelle, gli unici che si preparano a incassare un dividendo politico dall’operazione. Paradosso di un movimento in via di dissoluzione che si avvia, sulla carta, a cogliere una vittoria clamorosa perché ridisegna il Parlamento. E crea una serie di scompensi istituzionali, compreso un problema di rappresentanza in alcune parti del territorio nazionale. Chi vorrebbe impegnarsi sono i Comitati per il No. Ce ne sono molti in giro per l’Italia e per come possono si fanno sentire, indicando i rischi di un taglio mal calibrato, nemmeno idoneo a risparmiare. Pochi pensano che potrebbero determinare una sorpresa nelle urne, tuttavia possono contenere la sconfitta. Magari intercettando un sentimento di opinione pubblica meno propenso di un paio d’anni fa a sostenere le campagne grilline.