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 2020  febbraio 29 Sabato calendario

Intervista a Carlo Lucarelli - su "L’inverno più nero" (Einaudi)

Bologna, 1944. Il centro della città è ridotto a una stalla: 18 mila bestie sono al riparo sotto ai portici. Fa un freddo boia. Si respira fame e paura. La città è distrutta, i torturatori sono al lavoro negli ultimi giorni del regime fascista. De Luca, il vicecomandante della squadra autonoma di Polizia Politica, dice: «Ho guardato dalla parte sbagliata, anzi… non ho guardato proprio, da nessuna parte, e quando me ne sono accorto era troppo tardi». Tutta quella violenza gli sembra quasi normale: «Quasi».

Il maestro del giallo torna con un romanzo che racconta una storia lontana nel tempo. Ma Carlo Lucarelli non fa altro che indagare l’Italia e le contraddizioni degli italiani. Ed è così anche questa volta, con il nuovo caso del commissario De Luca, L’inverno più nero, il sesto della serie. Achille De Luca è un poliziotto introverso, nato a Parma come il suo creatore. Lucarelli gli deve l’esordio da scrittore trent’anni fa: mentre stava lavorando alla tesi di laurea ebbe l’illuminazione. Negli anni ha continuato a volergli bene. Lo segue avanti e indietro nel tempo, a cavallo della seconda guerra mondiale, come se da lui cercasse delle risposte. Lucarelli ha scritto saggi e romanzi, si è inventato un modo di raccontare i casi di cronaca nera in televisione che ha fatto scuola con la trasmissione Blu Notte. Continua ad occuparsi di delitti celebri e di misteri irrisolti, scava, studia, mette in scena, non smette di inventare nuovi investigatori. Eppure forse nessun personaggio è più intimo, e al tempo stesso più politico, del commissario De Luca.

Carlo Lucarelli, lei scrive un giallo di ambientazione storica: ma quanto racconta il presente?
«Io spero tanto. Se ti colpisce un momento storico è perché ci sono cose nell’oggi di cui vuoi andare a cercare le radici. Ho scritto questo romanzo e anche il precedente caso del commissario De Luca proprio perché certe parole me le sento girare attorno. Questa cosa, di abituarsi alla violenza, è già successa. L’abbiamo vissuta in tanti momenti della nostra storia. Mi sembra che anche oggi, in Italia, stiamo incominciando ad abituarci».

Nella nuova indagine De Luca deve risolvere tre casi, “tre delitti nello spazio di 400 metri”. Per ognuno di questi si fa avanti qualcuno: il prefetto, i nazisti, la Resistenza. Come riesce a destreggiarsi fra forze opposte?
«Da una parte c’è il commissario che vorrebbe fare il poliziotto e basta, un personaggio classico: c’è stato un omicidio e lui deve scoprire chi è stato. Ma io lo metto dentro una storia in cui fare questa cosa, che lo esalta, non è così semplice, perché alla fine il delitto è sempre un delitto politico. De Luca è un poliziotto dentro questa ambiguità, è quello buono e quello cattivo contemporaneamente. Così come, all’epoca, c’erano sbirri, questurini e poliziotti che riuscivano, anche di fronte ad uno Stato che faceva cose sbagliate, a comportarsi in maniera corretta».

Con De Luca c’è un’altra protagonista: la città di Bologna.

«Sì, Bologna ritorna spesso nei miei libri. Ma questa del 1944 è stata una scoperta. È una città che cambia molto la dinamica del giallo e anche quella dei personaggi, perché non puoi fare altro che prendere su e cominciare a scarpinare in mezzo ai tedeschi e alle brigate nere per riuscire ad arrivare in un posto e farti dire qualcosa. Forse bombardano. Forse c’è una retata. È una città lenta ma concitata».

Quanta immaginazione c’è nella ricostruzione?
«Ho inventato pochissimo. Magari una casa, in una determinata via, è stata bombardata qualche tempo dopo, oppure un negozio ha aperto successivamente. Ma sono andato a leggere. E ho scoperto cose che non potevo immaginare. Bologna nel 1944 diventa un campo profughi come quelli di oggi in Siria e Turchia. Più di 600 mila persone sono rifugiate nel centro storico. È tutta gente che sta in mezzo alla guerra e pensa che deve riuscire ad arrivare a domani, in qualche maniera, ancora viva».

Esisteva davvero via Fregatette?
«Certo, come no? A Bologna è impossibile immaginarsi qualcosa che sia più bella di ciò che vedi. C’era via Senzanome e c’era via Fregatette, perché era così stretta che fregavi le tette delle donne quando ci passavi».

Lei ha detto che in tutti i suoi romanzi non fa altro che raccontare la stessa storia: “un certo modo di essere italiani”. Che italiano è il commissario De Luca?
«Alla fine l’ho capito. È un tipo di italiano che attraversa le cose pensando ad altro, guardando altrove. Lui continua a dire: sono un poliziotto. Incarna quel tipo di italiano che in certi momenti storici dice: “Beh, ma io cosa centro?“».

Nel romanzo cita l’articolo 7 del Manifesto di Verona: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Nei primi giorni del 2020 in Italia si contano già dieci episodi di antisemitismo. Per qualcuno è un allarme esagerato perché il passato non torna mai. Lei cosa pensa?
«Non mi sembra affatto un allarme esagerato. Se ci rifacciamo alla storia, noi abbiamo avuto tantissimi allarmi. Le leggi razziali non sono arrivate improvvisamente. C’è stato un terreno coltivato prima. C’era un’Italia che si è scoperta antisemita, ma se ti scopri antisemita significa che lo eri. Dal ’38 al ’43 le leggi razziali sono state applicate senza che nessuno dicesse niente. Nessuno si è lamentato. È un dato di fatto. E adesso abbiamo svastiche in giro che prima non c’erano. Comincia sempre così: l’unico modo è occuparsi delle cose fin dall’inizio. Se ti volti dall’altra parte, senza agire immediatamente, la fine la conosciamo».

Da emiliano romagnolo nato a Parma come ha vissuto la contesa elettorale nella sua regione?
«Con molta partecipazione. Ho anche preso posizione, e di solito non sono così esplicito. Alla fine ho tirato un sospiro di sollievo».

L’Italia è depressa?
«Forse lo siamo, ma intanto avvengono delle cose. Questa delle sardine, per esempio, è molto positiva. Un sacco di gente è andata in piazza. Forse questo è il momento di inventare qualcosa e di cambiare».

Per lei è anche un momento di ricorrenze. Il primo libro della serie del commissario De Luca intitolato “Carta Bianca” fu pubblicato da Sellerio nel luglio del 1990. Sono passati trent’anni. Come festeggerete?
«Innanzitutto, provando riconoscenza. Quel personaggio mi ha portato dentro alla mia vita, da lì sono diventato uno scrittore. Provo gratitudine per De Luca e anche per Elvira Sellerio, che mi telefonò quando ero un ragazzo sconosciuto e disse: “Buonasera, sono Elvira Sellerio, pubblichiamo il suo romanzo, è contento?“. Magari a luglio darò una festa per i trent’anni».

Qual è un suo rito di scrittura?
«Mi metto lì e scrivo. Sono dell’idea di Scerbanenco, il quale diceva che per scrivere bene bisogna averne voglia. Ci piacerebbe dire che siamo come quegli americani alla Stephen King che scrivono e basta, ogni santo giorno, alla stessa ora. Ma non è vero. Non è così. Un po’ si scrive in treno, un po’ si scrive in giro, il più delle volte, come ha detto John Fante, quando si è cazzeggiato così tanto che alla fine si è costretti a dover fare qualcosa. A me capita verso le 5 di pomeriggio».

Un debito letterario?
«Ancora Scerbanenco, I ragazzi del massacro. È da lì che ho imparato questa cosa di un personaggio che sia contemporaneamente positivo e negativo».

Alla fine dell’“Inverno più nero” compare la parola “vergogna”. Il commissario De Luca ne prova abbastanza?
«No. Il suo problema è proprio quello: lui prova vergogna di non provare abbastanza vergogna. Per come lo vedo io, è uno psicopatico. Quando gli chiedono di andare a vedere un’autopsia, lui smette di mangiare i tortellini per occuparsene. A lui interessa solo l’indagine. È capace di perdere ragazze che lo amano perché deve arrivare alla fine del caso. Questo modo di fare lo distrae anche dalla vergogna».

Ha mai avuto la tentazione di portarlo tutto dalla parte del bene?
«De Luca, alla fine, fa le cose giuste. Ma se le facesse anche con un’adesione entusiastica ci sarebbe qualcosa di sbagliato. È un poliziotto, lo ripete in continuazione. Svicola. Non potevo redimerlo. Non se lo merita. Se De Luca ha guardato da un’altra parte è perché è fatto così».