il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2020
I numeri della pesca illecita
Che vi piacciano i ristoranti o i sushi bar, che vi sfamiate a scatolette o cuciniate come dei veri chef, se non siete vegetariani o vegani c’è un alimento che difficilmente manca dalla vostra tavola: il pesce. L’Italia è prima nell’Unione Europea per consumi con 28 chili a testa all’anno: il triplo rispetto ai 9 chili del 1961 e il 40% in più rispetto alla media mondiale. Secondo la Fao, l’organizzazione agroalimentare dell’Onu, nel 2015 il pesce rappresentava un sesto delle proteine animali consumate dall’umanità e forniva a 3,2 miliardi di persone un quinto del loro apporto pro capite di proteine animali. Nonostante il continuo aumento dei pescherecci, dalle reti ormai arriva però meno della metà del pesce consumato. Il problema, come in altri settori, è la sostenibilità dei consumi umani che stanno letteralmente desertificando i mari. A questo fenomeno si somma un altro fattore devastante: la pesca di frodo. Le stime sono molto variabili e difficili da verificare: secondo numerose fonti la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Inn) “vale” tra il 10 e il 22% del pescato globale in volume, ovvero tra 11 e 26 milioni di tonnellate l’anno, per un fatturato annuo compreso tra 10 e 23,5 miliardi di dollari. La razzia non devasta solo l’ecosistema: impoverisce molte comunità costiere dei Paesi più poveri e sfrutta i lavoratori. Contro questo crimine globale molti Stati e organizzazioni internazionali, tra i quali l’Unione Europea, stanno realizzando forme di contrasto sempre più dure, come rivela un recente rapporto del Centro studi del Parlamento europeo. Secondo le ultime stime della Fao, rese note il 14 febbraio, l’anno scorso il pescato mondiale ha registrato un dato in linea con quello del 2018 a 177,8 milioni di tonnellate, frenato dalla riduzione degli scambi mondiali. Eppure nel mondo il numero dei pescherecci continua ad aumentare: negli ultimi settant’anni è passata da 1,7 a 3,7 milioni di barche, il 70% delle quali a motore. Il problema è che, secondo gli ultimi dati Fao che risalgono al 2015, il 33,1% degli stock ittici mondiali è sfruttato oltre le soglie sostenibili per la biologia e, nonostante ciò, un 10% del pescato viene ributtato a mare e un altro 12% trasformato in farina per gli allevamenti.
L’acquacoltura invece ha continuato a crescere con la produzione stimata in aumento del 3,9% sul 2018: il pesce di mare ormai rappresenta solo il 45% dei consumi globali e la sua quota continua a diminuire. Dopo una crescita del 4% nel 2018, il valore commerciale della pesca globale nel 2019 è calato dell’1,42% a 160,5 miliardi di dollari. Nel 2016 gli allevamenti ittici rappresentavano il 47% della produzione totale che saliva al 53% esclusi gli usi non alimentari. In quell’anno il fatturato globale del settore ittico era stato stimato in 362 miliardi di dollari, di cui 232 miliardi provenienti dall’acquacoltura.
Il fatto è che il mondo ha sempre più fame di pesce. Tra il 1961 e il 2016, i consumi alimentari globali di pesce sono cresciuti del 3,2% l’anno, più della crescita della popolazione (1,6% annuo) e dei consumi di carne (+2,8% l’anno). A livello mondiale, il consumo annuo pro capite di pesce dovrebbe raggiungere i 21,3 chili a persona nel 2028 rispetto ai 20,3 del 2016-18. Pesce e derivati sono tra i prodotti alimentari più commercializzati al mondo: tra otto anni il volume dell’export del settore potrebbe rappresentare il 36% della produzione totale, 31% esclusi gli scambi all’interno della Ue.
L’obiettivo 4 dell’iniziativa 14 dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile, adottata nel 2015 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sollecita specificamente la comunità internazionale a “regolare efficacemente la raccolta e porre fine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e alle pratiche di pesca distruttive” entro il 2020. Un programma purtroppo non realizzato che è stato prorogato al 2030. Eppure le principali organizzazioni internazionali stimano che un terzo delle catture globali provenga dalla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Inn). Un’attività criminale che impoverisce gli stock ittici e distrugge gli habitat marini, ma vale sino a 23,5 miliardi di dollari l’anno. Per alcune specie di pesce, le catture illegali sono addirittura il triplo di quelle legali. Secondo un recente studio di Global Financial Integrity, un’organizzazione di ricerca senza scopo di lucro, la pesca illegale è il sesto maggior mercato criminale del mondo.
La pesca di frodo non ha solo risvolti ambientali: distorce la concorrenza e svantaggia i pescatori onesti a favore dei criminali, sottraendo risorse a milioni di comunità costiere in tutto il mondo anche grazie alla corruzione delle autorità di controllo che dai porti arriva sino ai governi. Non solo: la pesca Inn si basa spesso sullo sfruttamento disumano di personale proveniente da Paesi poveri che viene allettato dalla promessa di un lavoro decente ma una volta in mare viene ridotto in schiavitù. La pratica del trasbordo del pescato consente di rifornire i pescherecci e portare a riva le catture mentre la nave-fattoria può restare al largo con i suoi schiavi per mesi, talvolta addirittura per anni senza mai sbarcare. Alcuni rapporti di Greenpeace dimostrano la presenza di queste pratiche inumane specialmente nei mari dell’Asia sudorientale.
Il fenomeno a tutt’oggi coinvolge 26 Paesi, 23 dei quali sotto osservazione per mancato rispetto delle norme contro la pesca di frodo. Sette sono nell’Asia meridionale e orientale, sei nel Pacifico centro-occidentale, altri sei nei Caraibi, cinque nell’Africa occidentale e uno nell’Oceano Indiano occidentale. Altri tre Paesi sono stati dichiarati fuorilegge. Ma ci sono anche 24 Stati che ne sono usciti, accettando di sottostare alle regole internazionali stabilite dall’Onu e dalla Fao e ai controlli condotti da Usa, Ue e altri Paesi.