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 2020  marzo 01 Domenica calendario

Storie dei pazienti zero

La locuzione non ha una origine logicamente valida: nasceva da un refuso e fu inizialmente attribuita alla persona sbagliata. Si trattò dell’errata lettura di un report epidemiologico, dove invece di riportare «Patient O» dove O significava «out of California»), la lettura fu «Patient 0». Così il povero steward canadese, insaziabile consumatore di avventure omoerotiche, Gaétan Dugas, sarebbe stato per anni additato come l’untore dell’epidemia di Aids in Nord America, che si credeva avesse portato da Haiti o dall’Africa. Salvo scoprire, nel 2016, dopo che film e libri ne avevano diffamato la memoria (era morto di Aids 1984), che il poveretto non c’entrava niente. Gli studi basati sulle sequenze di genomi del virus HIV, effettuati su campioni, hanno mostrato che il virus era arrivato a Haiti dallo Zaire intorno al 1967, e da lì si spostava a New York nel 1971 e a San Francisco nel 1976.
Ai tempi del coronavirus, chiunque guardi le televisioni o frequenti i social media, sa che i medici danno la caccia, quando scoppiano i focolai, ai pazienti zero, le prime persone che hanno contratto la malattia e diffuso l’epidemia, per risalire alla rete di contatti che potrebbero aver contratto e ulteriormente trasmesso l’infezione. Il paziente zero è protagonista nella letteratura, nella cinematografia e nei videogames: nel 2018 in Gran Bretagna è stato distribuito un mediocre lungometraggio intitolato Patient zero.
Se gli epidemiologi e i politici sono ansiosi di dare la caccia ai pazienti zero, chi frequenta anche la storia morale della sanità si domanda se abbia senso rendere pubblici i nomi delle persone sospettate o identificate come tali. È proprio necessario stimolare l’innato impulso umano ad affibbiare lo stigma di untore, a chi non ha certo contratto volontariamente la malattia? La normale riservatezza del rapporto medico-paziente, o paziente-sistema sanitario dovrebbe valere anche in questo caso. 
Sia come sia, noi conosciamo diversi episodi storici che hanno visto la ricerca con successo del primo caso da cui è derivata un’epidemia. Il primo «paziente zero», documentato, della storia della medicina fu una bambina, Frances Lewis, nata il 21 marzo 1854 e morta il 2 settembre dello stesso anno di colera. I genitori abitavano al 40 di Broad Streat, immediatamente adiacenti a una pompa di acqua. Quando il 24 agosto la creatura manifestò un’intensa diarrea, la madre immerse i pannolini sporchi in un secchio di acqua fredda versandolo quindi nel pozzo nero (un serbatoio di acque reflue), nella parte anteriore della casa. Le crepe e le rotture nel muro del pozzo nero provocarono perdite verso la pompa, scatenando una violenta epidemia di colera che uccise oltre seicento persone. Studiando la geografia della mortalità per colera il medico John Snow ricondusse l’origine di quell’epidemia alla Pompa di Broad Street, interrompendola con la semplice asportazione della maniglia, e dimostrando che il colera si trasmette con l’acqua inquinata dalle feci di persone malate. Si tratta di una vicenda notissima e ancora istruttiva, recentemente ricordata anche nella serie televisiva britannica Victoria.
Un altro famosissimo paziente zero fu la cuoca di origini irlandesi Mary Mallon, meglio conosciuta come Thyphoid Mary, che nel 1906 fu arrestata a New York in quanto aveva contagiato di salmonellosi o tifo addominale 22 persone delle 9 famiglie dove aveva cucinato, di cui una era morta. Mary era una portatrice sana della malattia – il concetto di portatore sano di un’infezione era stato definito da Robert Koch nel 1890 – e alla sua morte si scoprì che viaggiava con un focolaio di salmonelle nella cistifellea. Il suo piatto più pericoloso era il gelato con le pesche crude: visto che le preparazioni cotte neutralizzavano il rischio di infezione. La figura di Mary, immagine della salute, è circondata da un alone romanzesco, in quanto, come viene raccontato nell’ottava puntata della serie televisiva The Knick di Steven Soderbergh, si rifiutò di collaborare e sostenne sempre la sua innocenza, nonostante le prove raccolte dall’ingegnere sanitario George Soper. Riuscì a farsi rilasciare nel 1910, dietro promessa che non avrebbe più fatto la cuoca. Ma tornò a cucinare sotto falso nome. Dopo altri 25 nuovi episodi e 2 decessi fu imprigionata per 23 anni, fino alla morte. 
Casi di portatori sani che hanno diffuso il tifo addominale anche più rilevanti sanitariamente si sono avuti negli stessi anni. Mentre conosciamo nomi e destino di Mary Mallon e di altri, in Inghilterra non venne diffuso il nome di Mr N, un mungitore che tra il 1899 e il 1909 causò un’epidemia nel Folkstone. Era un altro di portatore sano, identificato quando aveva sessant’anni, che aveva causato almeno duecento casi, senza ammalarsi. A differenza di Mary non fu incarcerato ma accettò di andarsene dalla regione e non lavorare più nel ramo caseario.
Altri due bambini sono conosciuti come pazienti zero. Uno è il cinquenne Edgar Hernandez, che si pensa sia stato il primo a contrarre, in un allevamento di maiali di La Gloria in Messico, l’influenza suina nel 2009. Mentre fu un bambino di un anno, Emile Ouamono, a scatenare nel 2014 l’epidemia di Ebola, che infettò oltre 20mila persone e ne uccise 7842: il piccolo aveva giocato in un albero infestato di pipistrelli, a Meliandou un villaggio della Guinea in Africa occidentale, ed era morto infettando sorella, madre e nonna. A causa di Ebola, in occidente, vi sono stati almeno due episodi che dovrebbero indurre a prestare attenzione nella ricerca delle persone infette. Nel 2014 un medico statunitense si recò in Guinea per aiutare nella lotta a Ebola. Infettatosi, al rientro fu curato, senza trasmettere il virus a nessuno, ma fu accusato dal governatore Mario Cuomo di mettere a rischio la città di New York. Acuni mesi dopo l’infermiera Kaci Hickox fu sottoposta a quarantena questa volta dal governatore del New Jersey, sulla base di un mero arbitrio e senza rispetto della privacy, ma soprattutto in assenza di infezione da Ebola.
Si conoscono anche i pazienti zero dell’epidemia di Ebola esplosa in Zaire nel 1974 e del medico di Guandong che trasmise la SARS poi diffusa internazionalmente, durante un soggiorno al Metropole Hotel di Hong Kong. Il paziente «zero» è stato cercato anche nel caso del coronavirus cinese che imperversa a Wuhan. Uno studio pubblicato su Lancet il 24 gennaio scorso è risalito a un cluster di 41 individui, tra i quali un paziente che si sarebbe ammalato il 1° dicembre 2019. Il problema è che la persona era malata di Alzheimer, quindi che non usciva di casa, e comunque non si trovava nelle immediate vicinanze del mercato del pesce e della carne, da cui si pensa sia partira l’epidemia.