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 2020  marzo 01 Domenica calendario

Ai piedi del naso di Cleopatra

Nessun nemico ha mai tributato a un nemico vinto l’ammirazione che Orazio riserva a Cleopatra sconfitta nell’ode famosa del Nunc est bibendum: ora si può bere e danzare liberamente, dacché è scomparsa colei che minacciava la rovina di Roma e la fine dell’impero, impavida, capace di trattare i serpenti e di assorbirne il veleno, per non essere trascinata in catene come una donna qualsiasi nel trionfo superbo del vincitore, lei donna non umile.
Sono certamente questo ritratto e queste gesta dell’antica regina d’Egitto che le attraggono prevalentemente l’interesse e la curiosità dei lettori anche oggi, più che le vicende e i successi politici, pur cospicui, sul trono del regno ultimo rivale e boccone prelibato per l’Urbe. E lì e allora essa divenne l’amica dei due maggiori protagonisti della fine della repubblica, e la nemica del fondatore dell’impero romano. Anche nel solido impianto storico su cui è impostata Cleopatra – Regina dei re di Mariagrazia Evre Arena, una studiosa di epigrafia che approfondisce con molte notizie ogni fatto con cui ha a che fare, il ritratto è a tutto tondo e, a fianco degli storici, dei letterati, si avvale dell’apporto degli artisti, della numismatica, dell’etnografia. 
Salita ancora adolescente sul ricchissimo trono dei Tolomei in una vasta confusione dinastica, a ventun anni era già l’amante di Giulio Cesare più anziano di lei di trenta e giunto ad Alessandria vittorioso di Pompeo dopo Farsalo, nel 48 a.C. Si fece portare davanti a lui avvolta in un tappeto, che fece srotolare ai suoi piedi «conquistandolo col suo ardimento» (Plutarco). Gli diede poi un figlio, Cesarione; e dopo la sua scomparsa divenne l’amante di Marc’Antonio in una delle più folli avventure amorose di tutti i tempi. L’allestimento del suo primo incontro col generale romano fu di nuovo spettacolare e abilissimo: gli si presentò come una Venere sdraiata su un divano purpureo e attorniata da Amorini e da musiche, sulla tolda di una galea con le vele di porpora e i remi d’argento. Marc’Antonio non era da meno né meno sensibile a questi oggetti, anzi, «l’oratore Messalla ci ha tramandato che questo triunviro usava vasi d’oro per tutti i suoi bisogni sconci, una vergogna di cui sarebbe arrossita persino Cleopatra» (Plinio, Storia naturale).
Percorrevano di notte, travestiti, le strade vuote di Alessandria in una comitiva orgiastica, oppure in banchetti strepitosi, con arrosti di otto cinghiali per dodici commensali. Lì essa sarà Afrodite e lui Dioniso, e unica loro legge sono essi stessi. Alessandria era in quei tempi la sede e lo scenario ideale per cose di questo tipo; una massa di gente buona solo a divertirsi a teatro e fare tifo scalmanato e rissoso all’ippodromo. I cortei per le vie o nello stadio erano strabilianti. L’autrice ricorda qui e descrive quello in onore di Dioniso celebrato da Tolomeo Filadelfo, in cui fu portato ed esibito un tino immenso di undici metri per sette, dentro al quale alcuni satiri pigiavano l’uva ballando e cantando e riversando il vino sul selciato.
Cleopatra stessa fu oggetto di culto come una dea. Il suo modello di riferimento anche fisico era Iside, figlia del Sole e molto vicina all’Afrodite greca e alla Venere romana; e come tale si fece ritrarre, adorna dei suoi simboli divini. Dotata di buona cultura, scrisse trattati di cosmesi e di alchimia, di medicina e di numismatica. Conosceva sette lingue. Ambiziosissima, mirò a raggiungere la gloria di Alessandro Magno e il successo nella politica come nella popolarità mediante il suo fascino. Chissà se amò mai davvero qualcuno e se agì mai per amore anziché per ambizione e vanità. E se fosse realmente bella. Dione Cassio dice di sì, anzi «eccezionalmente bella». Secondo Plutarco invece il suo fascino era piuttosto spirituale e intellettuale e risiedeva nel tono della voce, che pareva uno strumento musicale di molte corde così abilmente suonato da incantare gli ascoltatori.
Esaminato il suo volto quale appare sulle monete del tempo, la nostra autrice la trova sinceramente non bella e nemmeno molto preoccupata di esserlo: «la bellezza era l’ultimo dei suoi pensieri», si preoccupava piuttosto di essere regale. Porta i capelli riuniti secondo l’usanza in trecce che partendo dalla fronte sono poi annodati dietro la nuca; ha labbra carnose e anch’essa occhi grandi e a palla, come sono nella sua razza e nelle sue sculture. 
Il ponderoso problema è il naso, perché, rifletté Pascal e ci avvertì in uno dei suoi Pensieri, da esso dipese la storia del mondo: «se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe stata diversa», poiché nessuno si sarebbe invaghito di lei e la storia si sarebbe svolta sui binari paralleli di due imperi simili in Occidente e in Oriente anziché su uno solo, e noi non saremmo qui a discorrere di queste cose, né di altre. L’autrice lo rileva sulle monete come piuttosto “prominente”, lungo e aquilino, quale in tutta la dinastia tolemaica. 
Caduta nei secoli successivi fra le braccia non più di un guerriero ma di qualche poeta, essa lo abbaglia col suo sguardo. 
Secondo l’esperto Marc’Antonio, nella Mort de Pompée di Corneille, il cielo non riunì mai tante virtù ad altrettante grazie di un bel corpo, maestoso e dolce, nobile e coraggioso: i suoi occhi rapivano così come i suoi discorsi. 
E l’ammirazione di Orazio si ripresenta nella scena della morte dei due “amanti inimitabili”, che Shakespeare riprende da Plutarco in Antonio e Cleopatra
Antonio sconfitto da Ottaviano nel 31 a.C. ad Azio, da dove anche Cleopatra fugge con la sua flotta, cerca di uccidersi. Non ci riesce, e avendo appreso che l’amante si è già rinchiusa in un suo mausoleo, si fa trascinare là. Dapprima si guardano da su e da giù, poi Antonio morente è legato con cinghie e corde e issato per morire accanto a colei con cui è vissuto e che non potrà resistere senza di lui: «Come sopravvivere in questo scialbo mondo, che senza di te non è migliore di un porcile?». Morto dissanguato Antonio dopo un’ultima buona bevuta, Cleopatra si dispose a seguirlo nell’aldilà. Alla porta del mausoleo si presentò un contadino con una cesta di fichi per la regina. Gliela consegnarono ed essa estrasse dal fogliame un aspide velenoso, a cui offrì il suo braccio lasciandosi pungere, sdraiata su un letto d’oro e in vesti regali, e poi morire in una morte anch’essa voluttuosa. 
E se ne andò a compiere con le ancelle l’ultima mansione, di seppellire la spoglia di quel grande spirito che ora, passato il turbine della tempesta sulle loro teste, giaceva ai suoi piedi spento e freddo. Bella o forse no fisicamente, conclude il suo studio Evre Arena, lo è certamente nei racconti del suo coraggio e di quanto aveva sognato di compiere, nonché nella molta maldicenza riversata sul suo conto.