la Repubblica, 1 marzo 2020
John O’Hara, l’antipatico che sfidò Hollywood
Per una volta sono tutti d’accordo, o almeno una gran parte dei critici americani. John O’Hara, l’autore di La ragazza nel portabagagli (un piccolo libro del 1961, parte di una trilogia, pubblicato ora dalla casa editrice Racconti), era un uomo insopportabile, che per tutta la vita si è portato dietro il rammarico di non essere nato dalla parte giusta della strada. In altre parole di non essere riuscito a studiare a Yale, di non essere vissuto con la famiglia originale in una casa più bella, di non vantare titoli nobiliari, e di doversi accontentare di girare in Rolls Royce e di essere un professionista di successo in grado di scrivere in poche ore un racconto per il New Yorker. Era antipatico, testimoniano tutti, ed è un vero peccato perché di talento ne aveva. Ma non abbastanza da vincere il Nobel o almeno il Pulitzer. E non abbastanza da scrivere il Grande Romanzo Americano. La sua produzione consiste in una quantità imprecisata (si dice 247) di racconti per il New Yorker, dove evidentemente pigliavano il suo humor nero come parte del folklore dello scrittore maledetto.
In una Hollywood aperta agli scrittori e ai loro libri, John O’Hara non riuscì a trovare un posto nello scaffale della buona letteratura di cinema, tra Scott Fitzgerald e Budd Schulberg, tra Raymond Chandler e William Faulkner. Come Faulkner, ambientò una parte delle sue novelle in una cittadina inventata, Gibbsville, che è il suo paesaggio preferito insieme a una Hollywood riadattata ai suoi fini narrativi. Nessuno è perfetto nel mondo di Gibbsville, e la scrittura di O’Hara fissa con sguardo tagliente i personaggi anche in questo suo La ragazza nel portabagagli, che propone una cronaca pungente e cattiva del mondo del cinema con un sottotitolo scherzosamente alto, Prediche e acqua minerale (si tratta di una citazione di Lord Byron, dal Don Juan, «Noi abbiamo vino e donne, allegria e risate, prediche e acqua minerale il giorno dopo»). A suo onore bisogna dire che in questo percorso tra una festa hollywoodiana e le chiacchiere alcoliche del mattino presto, O’Hara almeno un personaggio lo tratta con tutto rispetto, Chotie Sears, la giovane star sopravvissuta a un incidente ma segnata per sempre sul viso. Bella e intelligente, Chotie è l’unica capace di osservare con freddezza e lucidità l’ambiente circostante.
O’Hara ci porta tra vecchie famiglie e nuovi miliardari, tra stanze d’albergo e ville sontuose, tra metropoli vere e cittadine da American Gothic. E quello che funziona mirabilmente nel racconto è la conversazione, il gergo della tribù ad alto tenore alcolico, dove si riflette un mondo di pregiudizi razziali e sessuali, tra sentimenti comprati e venduti.