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 2020  marzo 01 Domenica calendario

A un passo dalla recessione

L’ impatto del coronavirus su economia e mercati ha un prima e un dopo. Il prima comincia il 23 gennaio, quando la Cina mette in quarantena Hubei e i suoi 60 milioni di abitanti. Più che sulla pericolosità del virus, l’attenzione dei mercati si è focalizzata subito sulle conseguenze economiche della quarantena: è prevalsa la convinzione che sarebbero state circoscritte alla Cina e limitate al primo trimestre, con un recupero nei trimestri seguenti. Inoltre, si confidava che banche centrali e governi degli altri Paesi agissero in modo efficace per contenere le ripercussioni sul resto del mondo. Così, mentre la Borsa cinese perdeva il 10% alla notizia della quarantena, Wall Street e l’Europa perdevano solo il 2%, subito recuperato.
Il dopo comincia venerdì 21 febbraio quando Corea, Giappone e Italia sono colpite dall’epidemia. Da allora alla chiusura dei mercati di venerdì scorso, nonostante la remissione dell’epidemia in Cina, gli indici delle Borse americana e dell’Eurozona crollano in una settimana di quasi il 13%: perdite non distanti da quel 20% considerato indicatore di un bear market. Che cosa è cambiato in così pochi giorni, tenuto conto che l’epidemia per ora non ha toccato in modo significativo Usa e Germania, le due principali economie occidentali? Una reazione eccessiva dei mercati, o il segnale che il rischio di recessione globale è oggi molto più elevato di quanto governi e banchieri centrali facciano intendere?
Il valore di un’azienda dipende dalle sue prospettive di crescita e andamento futuro degli utili: quindi la reazione dei mercati è eccessiva nell’ipotesi che l’attività economica in Cina ritornerà ai livelli pre-coronavirus nel corso dell’anno, dimostrando che l’epidemia può essere superata, e se la sua diffusione negli Usa e in Europa sarà contenuta. Ma di questo non abbiamo certezza. E c’è un altro elemento che preoccupa: il dubbio che banche centrali e governi non sappiano agire con efficacia di fronte a questo shock.
Il coronavirus è uno shock dell’offerta. In un mondo globalizzato, la produzione di beni è una catena che attraversa decine di Paesi, nei quali imprese diverse realizzano e assemblano diversi componenti: la cosiddetta supply chain. Basta che il produttore di un componente si fermi per bloccare l’intera catena e far contrarre l’offerta, anche perché le tecnologie di produzione just in time hanno ridotto le scorte di magazzino. Senza contare che l’epidemia riduce la voglia di viaggiare, consumare e socializzare, facendo crollare la produzione di servizi, la principale componente del valore aggiunto del Pil nei Paesi avanzati.
La politica monetaria è impotente di fronte a shock dell’offerta: ridurre i tassi non serve a vincere la paura della gente. Infatti, le banche centrali per ora stanno a guardare. Lo ha dichiarato Christine Lagarde: «Monitoriamo l’epidemia attentamente, ma non siamo ancora allo stadio in cui c’è un impatto duraturo sulle condizioni di domanda e offerta e quindi sull’inflazione». Attendismo anche da Jerome Powell della Fed: «Agiremo nelle modalità appropriate». Nessuna reazione da Corea e Giappone. Suonano come dichiarazioni di impotenza: l’interpretazione del mercato è che le banche centrali agiranno, ma per limitare i danni quando e se ci sarà evidenza di una forte contrazione dell’attività economica.
Potrebbe essere troppo tardi perché nel frattempo il rischio è che si inneschi una crisi finanziaria che, aggravando l’impatto dello shock coronavirus, aumenta la probabilità di una recessione. Se i crolli in Borsa continuassero, e le banche centrali non intervenissero rapidamente a stabilizzare i mercati, l’instabilità finanziaria potrebbe minare la fiducia dei consumatori, che l’anno scorso hanno sostenuto le economie, e la propensione a investire delle imprese, già indebolita dalle incertezze legate alle guerre commerciali di Trump.
Ma il rischio finanziario più grosso è la crisi di liquidità a cui le imprese potrebbero andare incontro se le interruzioni nella supply chain e la contrazione dell’offerta dovessero perdurare: riduzioni dei fatturati o crediti inesigibili significano minori entrate di cassa. Un rischio reale visto che nella scorsa settimana c’è stata anche un’impennata degli spread di credito (il rendimento richiesto dai creditori per compensarli da rischio di insolvenza) per i rating inferiori a tripla B, sia negli Usa sia in Europa: oltre al crollo degli utili, si comincia a temere per i dissesti aziendali.
La politica monetaria può, e dovrebbe, stabilizzare i mercati. Ma spetta alla politica fiscale sostenere le imprese, con tagli delle imposte e misure straordinarie per facilitare l’afflusso di finanziamenti, specie verso quelle con minor merito creditizio, penalizzate dalla regolamentazione bancaria. Purtroppo, i tempi della politica fiscale sono lunghi. A otto mesi dalle elezioni presidenziali quasi impossibili negli Usa, dove il rischio di una crisi del credito è maggiore. In Europa, purtroppo, ognuno va per i fatti propri, e l’Italia, per ora la più colpita, dovrà fare affidamento unicamente sulle proprie risorse fiscali, notoriamente scarse. L’allargamento dello spread sui titoli del nostro debito pubblico lo conferma. Così come l’atteggiamento, per ora refrattario a intervenire, della Bce, anche se solo per rassicurare gli investitori: le parole spesso valgono di più delle azioni, come ha insegnato il famoso «a qualunque costo» di Draghi. C’è una sola certezza: le prossime settimane saranno cruciali per capire se veramente incombe il rischio di una nuova crisi globale, o se il coronavirus sarà ricordato solo come un inciampo nell’era della globalizzazione, che i social media hanno potenziato, inducendo individui, governi e mercati a reazioni eccessive.