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 2020  marzo 01 Domenica calendario

La vita senza contatto

Avevamo indicato l’avversario sbagliato: il vero nemico della civiltà europea, quello capace di impaurirla al punto di rinunciare ai propri valori e alle azioni che li rappresentano, non era il fondamentalismo islamico, ma un virus. Più che l’Isis poté il Covid-19. Ha fermato la musica, interrotto lo spettacolo (che a volte, quindi, non deve continuare), alzato invisibili muri alle frontiere, più spessi di quelli invocati dai sovranisti, rinchiuso le persone in casa e, come non bastasse, impone loro di non toccarsi. Mette al bando quei gesti consueti, rituali, così normali che soltanto la loro assenza forzata ne segnala il significato. Può sembrare una cosa minore l’invito del ministro della sanità francese a non darsi più la mano in segno di saluto o quello dei celebranti la messa a non scambiarsi più il segno di pace, ma sono sintomi del diffondersi di una grave epidemia: l’epidemia del distacco.
Venire a contatto con l’altro quando lo incontriamo, attraverso diversi gradi proporzionati alla conoscenza e al trasporto (stretta di mano, abbraccio, bacio) appare scontato, ma così non è: è sempre una scelta, individuale o collettiva. Alla quale, a ragione o per eccesso di precauzione, viene ora collegato un rischio. Ed è già un danno collaterale.
Il comune modo di sfiorarsi è l’immagine della nostra apertura al mondo. Non sarà un caso se nei regimi si sono adottate forme di saluto a distanza, addirittura il braccio teso che quella distanza impone e misura e che qualche buontempone vorrebbe riproporre con la scusa dell’emergenza da contagio. Avvicinarsi fisicamente al prossimo è una dimostrazione di disponibilità caratteriale, di calore proprio di popolazioni più gioviali. Diventa regola quando si connatura al sostrato di una società. L’immagine dell’approccio italiano al resto del mondo rimarrà a lungo Roberto Benigni nella notte dell’Oscar (e di ogni altra sua apparizione, per chi lo ha seguito): uso a ciancicar chiunque, allungando le mani verso il corpo altrui in cerca di confidenza e condivisione. Nel codice di comportamento dell’Europa sotto attacco si è sempre combattuto serrando le fila, non disperdendosi ognuno nel proprio angolo di presunta invulnerabilità. La gioventù dei cortei di protesta creava catene di braccia allacciando i gomiti e così gli scioperanti nei picchetti. Allontanarsi, staccarsi, isolarsi sono tre sinonimi dello stesso verbo: perdere.
La Francia che rinuncia alla stretta di mano è la stessa che ci ha dato un motto tripartito in cui ci è sempre venuto facile pronunciare Liberté ed Ègalité, sottovalutando Fraternité, che è in realtà condizione indispensabile per raggiungere gli altri due obiettivi. Per difenderci dal terrorismo ci è stato chiesto di barattare la libertà con la sicurezza, o meglio con l’utopia della sicurezza, inscenando il gran teatro dei controlli. Ora ci viene proposta un’altra permuta impossibile: la fraternità in cambio dello stesso miraggio riciclato.
Ancor più significativo che nelle chiese si abbandoni il gesto del segno di pace. La storia della liturgia è quella di un progressivo avvicinamento. Il celebrante, un tempo di spalle, si è girato verso i fedeli: una massa compatta, a contatto di gomito. Per invitarla alla pace si è chiesto un segno e quel segno è appunto la mano tesa. Non tanto la prima, al vicino conosciuto, alla propria destra o sinistra. Il punto è quando il fedele si volta e si protende verso l’altro da sé, fraternizza con chi gli sta alle spalle, escludendo possa costituire un pericolo, fidandosi e invitando a fare altrettanto.
In quella sorta di contagio globale che è la cultura popolare televisiva esiste un personaggio nato in Asia, nella Corea del Sud, trapianto in America e arrivato fino a noi. È il “good doctor”, il bravo dottore, un giovane uomo affetto da autismo, capace di uscire dal proprio guscio per diagnosi e interventi in cui fa un uso puro della logica, della scienza e del proprio talento, intellettuale e manuale. Il quarto episodio della terza stagione si intitola “Prendi la mia mano” e, accanto ai casi clinici, affronta l’incapacità del dottore di accostarsi fisicamente alla donna con cui vive: intrecciare le dita gli provoca una reazione di rigetto, come fosse il mal riuscito trapianto di un organo. Tutta la nostra esistenza procede trapiantando gli altri in noi e viceversa: scambiandoci doni, auguri e segni. Fornendoci esempi, dandoci coraggio, aiutandoci. Si può fare, anzi funziona molto meglio, la guerra a distanza. Non esiste invece la pace senza prossimità. Sono state non a caso dichiarate storiche le strette di mano tra Rabin e Arafat in occasione degli accordi di Oslo o tra i presidenti delle due Coree, Moon e Kim, al confine del 38mo parallelo. Sono gesti simbolici, certo, ma sono i simboli i primi bersagli di chi vuol cambiare il corso della storia. Comincia a diffondersi l’impressione che gli effetti, più che del virus del panico che si è scatenato, siano in parte spontanei e in parte indotti, manovrati da chi da tempo lavora all’indebolimento di un sistema, promuovendo le divisioni in ogni possibile forma, tra gli stati, le etnie e ora anche i singoli. Nel lungo periodo l’epidemia del distacco può essere la più dannosa.