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 2020  marzo 01 Domenica calendario

Biografia di Kurt Vonnegut

«Sono un umanista e amo la scienza. Odio invece ogni forma di superstizione, che non avrebbe mai potuto darci la bomba atomica». In questo paradosso c’è tutta l’intelligenza provocatoria di Kurt Vonnegut, e la sua volontà di stupire e spiazzare. Per superstizione intendeva anche ogni forma di credo religioso, e con la scienza, che definiva «la magia che funziona», aveva un rapporto segnato dal disincanto: «Quando studiavo chimica ero un tecnocrate ero convinto che entro il 1951 gli scienziati avrebbero messo Dio in un angolo e fotografato a colori». 
Ma non cadeva mai nel cinismo, e a volte nelle sue parole affiorava la malinconia: «La gente ha bisogno di buone bugie: ce ne sono così tante, di cattive, in giro». L’ho incontrato poche volte, sempre nella sua casa con la facciata di arenaria nella Midtown di Manhattan, e mi colpì subito il gusto per la battuta, sincera anche quando sembrava a effetto: «L’evoluzione se ne vada all’inferno: che errore che siamo! Abbiamo ferito a morte la vita di questo pianeta». Amava ridere e sorridere, a dispetto di quello che aveva vissuto sin da bambino: «In questo mondo c’è amore per tutti, se solo la gente fosse in grado di aprire gli occhi». Me lo disse una volta con uno sguardo opposto a quello che ti saresti potuto aspettare: il sorriso era beffardo. Aveva gli occhi penetranti Kurt, ti colpivano immediatamente, ma poi vedevi che avevano un fondo di dolcezza. E fumava sempre, freneticamente, al punto che i baffi erano ingialliti dal tabacco. Come le dita, lunghe e affusolate, che agitava per accompagnare ogni discorso. Era nato a Indianapolis in una famiglia passata dal benessere alla povertà: il padre, che portava il suo stesso nome, era un affermato architetto che aveva dovuto chiudere il suo studio all’epoca della Grande Depressione. La madre Edith coltivava invece ambizioni narrative, ma nessuno dei suoi racconti venne mai pubblicato. Tuttavia i genitori non rinunciarono mai a Ida, una donna di servizio di colore che Kurt identificò con il suo unico, solido punto di riferimento. Questa situazione di precarietà e frustrazione ne influenzò profondamente la psiche, come l’orgoglio con cui il padre parlava delle proprie origini teutoniche: pur amando profondamente l’America era fiero di discendere dal paese di Kant, Bach e Goethe, e Kurt se ne ricordò con sconcerto quando si trovò a combattere per difendere il mondo dalla minaccia nazista. 
Da giovane aveva intenzione di diventare a sua volta architetto, ma il padre gli consigliò di studiare «qualcosa di utile», e lui scelse la chimica, scoprendo intanto un innato talento per la scrittura: all’università di Cornell divenne il direttore della rivista universitaria, che, prima di Pearl Harbor, grazie a lui si schierò su posizioni pacifiste e anti-interventiste. La decisione di Roosevelt di scendere in guerra lo trovò nel momento più buio della sua esistenza: dopo un ennesimo rifiuto, la madre aveva deciso di togliersi la vita ingerendo un enorme dose di barbiturici. Nel giro di pochi mesi venne catturato a Dresda, dove, tra il 13 e il 15 Febbraio del 1945 l’aviazione alleata scaricò 2,800 tonnellate di bombe esplosive e 1,200 tonnellate di bombe incendiarie. Quella che venne ribattezzata la «tempesta di fuoco» si rivelò un massacro nel quale morirono almeno venticinquemila civili: Kurt vide orrori inenarrabili, ma riuscì a sopravvivere riparando in uno stabilimento dove si macellava la carne, come raccontò nel suo capolavoro Mattatoio n.5. Ogni momento di quell’esperienza, così come il rapporto con la Germania, divennero un elemento fondamentale della sua arte e dell’intera esistenza. Ne è prova quel magnifico apologo sull’identità che è Madre notte, nel quale una spia americana viene arrestata alla fine della guerra perché ritenuto un collaboratore dei nazisti: «Siamo quello che fingiamo di essere - scrive nel romanzo - quindi dobbiamo stare molto attenti a quello che fingiamo di essere».
Dopo la guerra aveva agognato l’aurea mediocritas della quotidianità sposando Jane Marie, con cui aveva frequentato tutte le scuole sin dall’asilo. Avevano avuto tre figli, ai quali si erano aggiunti altri tre ragazzi quando la sorella di Jane Marie era morta di cancro due giorni prima che il marito rimanesse ucciso in un incidente di treno. Kurt li aveva adottati senza esitazione, e questo dice molto di un cuore profondamente generoso, a dispetto di un atteggiamento che poteva apparire aspro . Il successo arrivò dopo sei libri, quando era sul punto di rinunciare a continuare: aveva fatto la fame, e ci fu un periodo in cui si improvvisò, con esiti disastrosi, rivenditore di automobili Saab. Raggiunse il successo con Mattatoio n.5, ma anche allora non perse mai il senso di fallacia, comprendendo che solo l’ironia può salvare l’uomo dagli spasmi dell’esistenza. Scelse di essere uno scrittore satirico, anche quando scriveva di temi drammatici come il maccartismo, teorizzando che i due veri partiti esistenti in America siano «I Vincenti» e «Gli Sconfitti». 
Per capire l’essenza del suo paese sosteneva che si dovesse leggere La democrazia in America di Tocqueville, ma amava profondamente Orwell, e come lui non ebbe mai paura di esprimere idee controcorrente: ne è prova Harrison Bergeron, pubblicato nel 1961, nel quale si ipotizza un mondo finalmente uguale, dove però le persone attraenti vengono sfigurate e quelle forte e intelligenti sono costrette a utilizzare strumenti che debilitano le loro potenzialità. Il racconto scandalizzò l’intellighenzia invaghita del comunismo e lui rincarò la dose affermando che ogni individuo è sacro perché è fatto di carne ed ossa, a differenza di un’entità astratta come lo stato. Era orgogliosamente e imprescindibilmente americano, Kurt, ma in quel formidabile racconto c’era anche qualcosa di intimo, che risaliva al periodo della scuola, quando si sentiva emarginato dai compagni benestanti. Ma anche rispetto a quel periodo di disagio era in grado di capovolgere ironicamente la prospettiva: «il vero terrore è svegliarsi una mattina e scoprire che i tuoi compagni di classe stanno governando il paese».
Chi lo ha frequentato sa che il dolore più grande è stato il divorzio da Jane Marie, a seguito di una conversione al cristianesimo che lasciò sgomento Kurt. Si dichiarava ateo, ma in Dio ti benedica, Dr. Kevorkian scrisse «Se non fosse per il messaggio di pietà e compassione di Gesù nel discorso della montagna, non vorrei appartenere al genere umano». Dopo il divorzio entrò in un periodo di profonda depressione che lo portò sull’orlo del suicidio, e teorizzò che «la maturità è una delusione amara». Nel momento più cupo affermò che «nessun luogo al mondo consente di essere immune alla più grave delle malattie, la solitudine», ma, paradossalmente, fu un nuovo dolore a farlo rivivere: quando Jane Marie si ammalò in maniera incurabile decise di rimanerle accanto sino alla fine, e fu proprio quel gesto a fargli trovare la forza di andare avanti. Poi trovò un nuovo amore con la fotografa Jill Krementz, che sposò e con la quale decise una nuova adozione. Non perse mai più la voglia di ridere dell’esistenza, e in una delle ultime interviste, concessa a 84 anni, annunciò che avrebbe voluto far causa alla marca di sigarette che fumava da quando ne aveva 12. A dispetto di quanto la compagnia era stata costretta a scrivere sui pacchetti, non era ancora morto: «Eppure questi bastardi me lo avevano promesso!» Se ne andò poche settimane dopo, per una caduta dalle scale.