La Lettura, 1 marzo 2020
Intervista allo storico Peter Burke
Peter Burke, 82 anni, docente a Cambridge fino al 2004, è uno dei massimi studiosi della dimensione culturale della storia, alla quale ha dedicato numerosi saggi, in gran parte tradotti nel nostro Paese. Il suo libro più recente, Espatriati ed esuli nella storia della conoscenza, pubblicato dal Mulino l’anno scorso, affronta in una prospettiva di lunga durata la storia dell’esilio intellettuale, mettendo in evidenza come questo fenomeno abbia contribuito alla diffusione del sapere. È previsto invece in uscita il 12 maggio da Yale University Press il nuovo saggio The Polymath. A Cultural History from Leonardo da Vinci to Susan Sontag.
Professor Burke, da dove nasce il suo interesse per il tema dell’esilio? Nelle pagine iniziali del libro, lei fa riferimento ai suoi precedenti volumi dedicati alla storia della conoscenza e cita in particolare alcuni autori che hanno ispirato le sue ricerche, tra cui il sociologo tedesco Karl Mannheim.
«Per rispondere farei un salto indietro alla fine degli anni Ottanta. È in quel momento che collocherei una svolta decisiva nei miei studi, che mi portò ad occuparmi di storia della conoscenza, tema al quale ho dedicato due volumi con lo stesso titolo, Una storia sociale della conoscenza, che coprono due distinti periodi: da Gutenberg a Diderot e dall’Enciclopédie a Wikipedia (tradotti in italiano rispettivamente nel 2002 e nel 2013 presso il Mulino) e un volume di introduzione generale What Is the History of Knowledge? (2016). Il libro sull’esilio s’inserisce a tutti gli effetti in questo percorso di ricerca, così come il mio prossimo lavoro, intitolato The Polymath (“Il sapiente enciclopedico”)».
Che cosa la spinse a imprimere quella svolta alla sua attività di storico della cultura?
«Oltre all’interesse oggettivo della materia, anche una ragione più specifica legata alla mia biografia personale. Da giovane studente e nei miei primi anni di carriera universitaria, ho incontrato molti esuli. Tra gli altri, lo storico dell’arte Edgar Wind a Oxford, l’antichista Arnaldo Momigliano a Londra e tutto il gruppo della nuova Università del Sussex, comprendente il sociologo romeno Zevedei Barbu, lo storico dell’arte tedesco Hans Hess, lo storico della letteratura slovacco Eduard Goldstücker e il filosofo ungherese István Mészáros».
Lei affronta subito il tema del lessico utilizzato in questo campo di ricerche, facendo riferimento ai seguenti termini: esule, rifugiato, espatriato, emigrato. Perché la sua scelta alla fine è caduta sulle parole esule ed espatriato?
«Ho sempre tentato di ricostruire il punto di vista (al plurale) delle persone scomparse vissute nel passato attraverso il loro vocabolario. In questo caso avevo due principali esempi in testa: la diaspora degli Ugonotti, i protestanti francesi perseguitati dal Re Sole, verso la fine del 1600 e il “grande esodo” di studiosi (solitamente ebrei di lingua tedesca, ma non sempre) dall’Europa centrale negli anni Trenta. In entrambi questi casi il termine rifugiato (coniato proprio in occasione della diaspora dei protestanti dalla Francia) è appropriato, quindi lo uso nel libro assieme al più ampio termine di esule. Tuttavia, studiando in modo più approfondito i due casi sopracitati in modo da collocarli in un contesto più generale, mi sono imbattuto nell’interessante vicenda di un gruppo di studiosi, molti dei quali tedeschi, che nel Settecento furono chiamati in Russia. Essi, come oggi avviene per gli studiosi stranieri invitati negli Stati Uniti, scelsero di lasciare il loro Paese. Vennero attratti, piuttosto che spinti ad andarsene. Così, quando le mie conferenze tenute a Gerusalemme per le Menahem Stern Lectures sono state trasformate in un libro, ho scelto i termini che in inglese portano il prefisso ex: esuli ed espatriati».
Esplora l’universo dell’esilio coprendo un arco cronologico di più secoli: quali sono le ragioni di questa scelta?
«Uno dei classici che hanno plasmato il mio lavoro è il libro di Fernand Braudel sul Mediterraneo, che ho letto quando ero studente insieme al suo articolo del 1958 sulle “Annales”, allora straordinariamente innovativo, sulla storia, le scienze sociali e la lunga durata. Credo che uno dei grandi vantaggi offerti dallo studio della storia sia quello di consentire di percepire i legami tra una dimensione storica di breve termine, di cui siamo tutti consapevoli, e quella di lungo termine che Braudel chiamava “storia inconscia” (intendendo il termine “inconscio” in senso non-freudiano). È stato dal gruppo delle Annales, in particolare da Marc Bloch, e da Max Weber (un’altra passione dei miei anni post-laurea), che ho imparato il valore della comparazione sistematica, per individuare non da ultimo anche le assenze significative».
Lei parla dell’esilio come esperienza di educazione. Che cosa significa?
«Penso all’esilio come una sorta di “educazione non sentimentale” perché di solito comporta per le persone interessate esperienze infelici o difficili (sradicamento, perdita, solitudine, sforzo per imparare una lingua straniera), ma porta a una più piena comprensione del mondo in cui viviamo con le sue molte culture e gli altrettanto numerosi modi di vivere. In una parola, l’esperienza “deprovincializza” gli esiliati (in misura maggiore o minore, in base alla loro apertura individuale verso le nuove esperienze). Gli esiliati hanno anche qualcosa da insegnare a chi li ha accolti. L’ho imparato presto quando li ho incontrati di persona a Oxford, proprio perché la loro formazione e il loro punto di vista erano diversi dalla “conoscenza convenzionale” dominante nella loro nuova dimensione in cui si erano inseriti. In questo senso nel libro parlo di una “doppia deprovincializzazione”».
Una delle parti più importanti del volume è dedicata a quelle che lei definisce «migrazioni confessionali» dei secoli XVI e XVII. Quale impatto ebbero allora sulle culture della conoscenza in Europa?
«La novità delle migrazioni cattoliche, protestanti, ebraiche e musulmane di quel periodo storico è stata la loro enorme portata (comparata a ciò che era accaduto prima, non alle dimensioni ben maggiori delle migrazioni dei nostri giorni). Da questa caratteristica sono derivate altre importanti conseguenze. I rifugiati hanno cercato di ricostruire le loro culture nei luoghi dove sono arrivati, creando nelle città enclave dove erano dominanti e potevano continuare a parlare la loro lingua così come a praticare la loro religione. La popolazione urbana della terra ospitante ha avuto l’opportunità di viaggiare all’estero, per così dire, rimanendo a casa, allargando così i propri orizzonti. Un numero significativo di esiliati (e i loro figli, molti dei quali avevano una doppia identità), si guadagnarono da vivere come mediatori tra la propria cultura e quella della “terra ospitante”, insegnando francese o italiano a Londra, ad esempio, traducendo testi e così via. Come una volta Carlo Cipolla ha ricordato ai suoi lettori, l’insegnamento faccia a faccia ha un impatto maggiore rispetto ai libri. Possiamo dunque affermare che queste diaspore hanno incommensurabilmente aumentato questa forma di educazione».
Un altro passaggio importante è legato alle diverse migrazioni culturali nel Novecento dai Paesi oppressi da regimi totalitari. Quali sono stati a suo parere i settori nei quali più elevato è stato l’impatto degli europei emigrati negli anni tra le due guerre?
«Non riesco a pensare ad alcuna altra migrazione con conseguenze culturali così importanti. Ma vorrei fare una distinzione fondamentale. Nelle discipline scientifiche, come ad esempio la fisica, l’impatto degli europei fu estremamente importante: si pensi alla ricerca che ha portato alla realizzazione della bomba atomica. Ma nelle discipline umanistiche, comprese le scienze sociali, i rifugiati hanno dato un contributo ancora più rilevante, nel senso che esso era strettamente legato alla loro condizione di esuli e al conseguente distacco con cui potevano guardare ai grandi processi sociali e politici del tempo».
In chiave comparativa qual è il suo giudizio sul caso degli esuli italiani? Possiamo affermare che quest’esperienza è stata sottovalutata?
«Sono d’accordo, penso che la diaspora degli intellettuali emigrati dall’Europa centrale negli anni Trenta sia meglio conosciuta, almeno in Gran Bretagna, rispetto a quella dei rifugiati italiani in fuga dal regime fascista: io stesso ne percepii l’importanza frequentando Momigliano, il grande economista Piero Sraffa e il critico letterario Uberto Limentani a Cambridge».
Lei arriva a considerare l’esperienza dell’esilio dai Paesi comunisti e da quelli governati da regimi militari nell’America Latina: questi fenomeni sono assimilabili a quelli che hanno segnato gli anni tra le due guerre? Esistono oggi situazioni analoghe?
«Considerando il contributo distintivo alla conoscenza offerto dagli esuli, tutti questi fenomeni sono davvero simili. Ad oggi ci sono intellettuali in esilio dall’Egitto, dall’Iraq, dalla Siria e da altri Paesi che vivono situazioni difficili: non so chi siano e quali siano i loro campi di competenza, ma immagino che, se collocati all’interno delle università dei Paesi in cui hanno trovato accoglienza, essi siano in grado di offrire un contributo simile a quello degli esuli del Novecento».