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 2020  marzo 01 Domenica calendario

I 101 anni di Giuseppe, reduce del Don

Villanova di Camposanpiero (Padova) Ogni sera, prima di andare a dormire, Giuseppe Bassi beve due dita di grappa e ai i pasti un buon bicchiere di vino. Un piacere che, nel suo caso, suona come un rituale di ringraziamento. «A salvarmi la vita durante la marcia di ripiegamento dalla linea del Don è stato il cognac. Senza quella botticina trovata da un artigliere non ce l’avrei mai fatta a sopportare fame e freddo». 
Russia, anno 1942. Bassi è sottotenente di complemento del 120° reggimento Artiglieria Motorizzata della divisione Celere. È partito volontario sul fronte orientale per la campagna contro l’Urss. Oggi ha 101 anni, portati magnificamente. Apre la porta di casa sua, una luminosa villa nella campagna di Villanova di Camposanpiero (Pd), seguito dalla badante. Sul pavimento ai piedi del divano dove si accomoda con agilità (e si rialza poco dopo per salutare l’arrivo della figlia Alberta), ci sono i giochi della nipotina Benedetta che, di anni, ne ha 100 di meno. Un secolo esatto li divide. 
Bassi, classe 1919, è uno dei pochi sopravvissuti alla campagna di Russia e ai suoi campi di concentramento. «In prigionia ci sono rimasto dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946: 42 mesi nei lager di Tambov, Oranki e Suzdal, tornando in Italia un anno e mezzo dopo la fine della guerra. A Togliatti conveniva ritardare il nostro rientro. Saremmo state tutte voci contrarie al regime comunista». Epidemie di tifo, pellagra, polmoniti, cancrene da congelamento mietono un numero di morti enorme. «La mattina ti svegliavi e non sapevi chi era rimasto vivo. Io, però, non mi sono mai ammalato – continua Bassi —. Il mio segreto era muovermi sempre, nei “campi” come durante la ritirata. A un amico ho salvato la vita prendendolo a calci. Non riusciva a rialzarsi, tanto era esausto. Fermarsi era uguale a morire, ammazzato dai russi o dal freddo. No, io dovevo vivere per poter raccontare».
E di raccontare, con lucidità e dovizia di particolari, Bassi sembra non stancarsi mai. Ricorda quando, partito per il fronte con l’incoscienza giovanile di chi vuole «scoprire nuovi Paesi», muore, accanto a lui, il suo artigliere. «Uno shock. Quella era la morte vera...». O di come, catturato ad Arbusowka, affronta la «valle della morte» a piedi, 300 chilometri sotto il grido dei russi «Davai, davai, bistrej! Avanti, avanti, presto!». E la fame come l’aria. «Neve, neve e solo neve, da mangiare e calpestare – ricorda —. E, attorno, i corpi dei compagni stecchiti dal gelo». 
Italiani, tedeschi e rumeni vengono ammassati nel Campo n. 188 di Tambov in bunker senza illuminazione né ventilazione. «In quelle condizioni ricreare un simulacro di civiltà è vitale. E i rumeni in questo erano bravissimi», continua Bassi alzandosi dal divano per poi tornare con uno spazzolino da denti, una spazzola e una pipa, costruiti con il legno di ciliegio del bosco di Tambov e i crini dei cavalli, «finché sono rimasti tutti senza coda!». Ride. E già si riallontana per prendere i disegni realizzati, a memoria, dagli schizzi presi nei lager su cartine di sigarette. Talmente puntuali da aver permesso di ritrovare alcune fosse comuni nelle quali erano stati sepolti i prigionieri dell’Armir. «Sono geometra, il disegno è la mia passione. Come gli orologi, del resto. Nei lager per tutti ero “Bassil’ora” perché ero il solo a essere riuscito a nascondere nelle scarpe un orologio e i compagni mi chiedevano sempre l’ora». Eccolo, appeso al muro, «dopo aver segnato 30.996 ore di fame, freddo, morte e abbandono», come recita la scritta apposta da Bassi nella cornice. Lui la legge, senza occhiali. A 101 anni, portati magnificamente.