La Stampa, 29 febbraio 2020
Una mostra sule scarpe di Louboutin
Christian Louboutin, prima di disegnare le scarpe delle star, è stato un ragazzo di questo lembo del 12° arrondissement, nel Sud di Parigi, figlio di un ebanista («da lui, dal modo in cui lavorava il legno, ho imparato il senso del dettaglio») e di una madre casalinga (libera, originale), più tre sorelle maggiori, tutte bionde e con gli occhi azzurri. Lo stilista, classe 1964, è ritornato nel palazzo che domina il quartiere: il Palais de la Porte Dorée, gioiello dell’art déco.
Vi si è appena inaugurata la mostra «Christian Louboutin: l’exhibition(iste)» dove si scopre che lui è molto di più dell’artefice delle scarpe dalla suola rossa. Il palazzo, diventato il Museo dell’immigrazione, ospitava un tempo quello delle arti dell’Africa e dell’Oceania e, ancora oggi, un acquario tropicale. «Avrò avuto una decina d’anni e per la prima volta varcai l’entrata del museo», racconta Christian . «Questo palazzo sobrio e austero m’incuteva paura: mi feci accompagnare da una delle mie sorelle. All’entrata c’era un cartello, che proibiva di entrare con i tacchi alti, per non rovinare i mosaici del pavimento. Quel disegno inizialmente non mi disse nulla. Solo dopo tanti anni, vedendo un paio di stiletti ai piedi di Kim Novak, nel film La donna che visse due volte, di Hitchcock, mi ritornò in mente». Un destino inevitabile.
Il museo divenne una delle sue destinazioni preferite. «Io, che avevo due genitori bretoni, conoscevo solo Parigi e la Bretagna. Qui scoprivo il mondo». Tra piume, totem e riferimenti esotici. E al Palais de la Porte Dorée è voluto ritornare per raccontare la sua storia, in un luogo per niente fashion («ma la moda non faceva parte dei miei primi amori. Da ragazzo ero affascinato dallo spettacolo e ho iniziato questo mestiere fabbricando scarpe per le ballerine»). Ci sono foto e ricordi, che rimandano a un ragazzino allergico alla scuola e che a 15 anni iniziò a frequentare le discoteche di Parigi (compreso il mitico «Palace», dove si potevano incontrare Yves Saint Laurent e Grace Jones). Sì, Christian dalla pelle ambrata, che solo a 53 anni ha scoperto di essere figlio della madre e di un amante egiziano (ma che importa, nel suo cuore il papà è rimasto Roger e basta, il dolce e laborioso ebanista). Il percorso della mostra è barocco e colorato, leggero e fiammeggiante, come lui e come le sue calzature. Ci sono alcune collaborazioni con artigiani (perfino del Buthan, che hanno costruito un teatro in legno, visibile in una sala, disegnato dallo stilista) e con gli artisti amici (come il cineasta David Lynch, che ha scattato foto forti di calzature impossibili ispirate al feticismo). E ci sono soprattutto loro, le scarpe, dalla prima, in pelle di sgombro, fino a quelle con la scritta «Love» (1991), arrivando alla serie Nudes, iniziata nel 2013, dal colore della pelle umana (otto tonalità diverse), perché per Christian la calzatura è sempre un’emanazione della gamba e del corpo della donna. Spicca il senso dell’artigianalità («me l’ha trasmesso mio padre e lui ora non c’è più. E io non gliel’ho mai detto») e quella concezione della moda degli Anni 80 e 90, più leggera e spontanea, prima che l’industria del lusso, troppo strutturata, prendesse il sopravvento.
Per la mostra Louboutin ha collaborato con Olivier Gabet, direttore del Museo delle arti decorative di Parigi che fino al 22 marzo ospita un’esposizione sulla storia della calzatura («Marche et demarche»), con una serie di «chicche», comprese le microscopiche scarpe imposte nell’Ottocento alle nobili cinesi.