Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  febbraio 29 Sabato calendario

A El Savador 30 anni di galera per aborto

Trent’anni di prigione per omicidio, attualmente scontati, sette. Sara del Rosario Rogel aveva 22 anni il 7 ottobre 2012 quando viene arrestata a seguito di una brutta caduta e in sofferenza ostetrica con conseguente lacerazione e sanguinamento. La polizia la ferma in ospedale per presunto omicidio del feto che portava in grembo. Accusa confermata l’anno dopo, il 12 settembre 2013 dal Tribunale di Cojutepeque, dipartimento di Cuscatlan, El Salvador. In Salvador l’aborto è vietato in ogni sua forma, il che include la spontanea perdita del feto, nel caso in cui, come per Sara, i giudici sospettano che un po’ le donne se lo siano cercato. Ora l’Onu, con il dossier del Gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie esige che il Paese di Nayib Bukele abolisca questa pratica “disumana” e liberi le decine di donne in carcere per “interruzione spontanea di gravidanza”.
Perché Sara non è l’unica vittima. Berta Margarita Arana, residente in una zona rurale del Salvador, nessun grado di istruzione, impiegata domestica, nel 2013 soffre un’emergenza ostetrica. Non riesce ad arrivare in ospedale e partorisce in casa. Il giorno dopo, mentre è al pronto soccorso per essere visitata, viene arrestata. Gli agenti sono sicuri che la giovane donna abbia commesso un crimine: tentato omicidio, reato di cui viene ritenuta colpevole anche dal Tribunale di Ahachapan il 2 luglio del 2014 e condannata a 15 anni. Berta è ancora in carcere, anche lei, secondo l’Onu, “privata arbitrariamente della libertà”, essendole stata impedita qualsiasi forma di sconto di pena in virtù delle sue origini e condizioni di donna indigente e per di più proveniente da un altro paese, il Guatemala, senza peraltro documenti. Fattori che secondo l’agenzia delle Nazioni Unite mettono la donna in una situazione di disparità e svantaggio anche più delle altre.
Non va meglio a Evelyn Beatrize Hernandez, oggi in libertà vigilata, che il 6 aprile 2016, all’età di 18 anni, ignorando di essere incinta, ha un aborto. Accompagnata da sua madre al pronto soccorso, “al posto di assisterla dal punto di vista medico, viene arrestata arbitrariamente e accusata di omicidio aggravato”. Giudicata dallo stesso Tribunale di Sara, anche Evelyn viene condannata a 30 anni il 5 luglio del 2017. Ma il tortuoso percorso giudiziario della ragazza non finisce qui. E dopo il ricorso in appello e l’annullamento della sentenza da parte della prima camera penale di Cojutepeque per insufficienza di prove, per Evelyn viene disposto un nuovo processo. Il 19 agosto 2019, lo stesso Tribunale la assolve, ma il 6 settembre la Procura ricorre in appello. La difesa di Evelyn ricusa i giudici, nodo che tuttora è ancora irrisolto. Per l’Onu si tratta “di persecuzione e criminalizzazione ai danni di Evelyn”.
La richiesta delle Nazioni Unite alle Istituzioni salvadoregne è che liberino le donne e le risarciscano per i danni loro arrecati, oltre a svolgere un’inchiesta “esaustiva e indipendente di tutte le detenzioni, perché vengano puniti i responsabili”. Si tratta di una decisione inedita per El Salvador che “rappresenta un precedente”. “È la prima volta infatti – ha spiegato la leader del movimento femminista salvadoregno “Associazione cittadina per la depenalizzazione dell’aborto”, Morena Herrera – che l’Onu si pronuncia con chiarezza circa la condizioni di detenzione di queste donne e le diverse forme con cui vengono violati i loro diritti fondamentali: quali la presunzione di innocenza, il giusto processo e l’equo accesso alla giustizia”.
Secondo l’associazione, dal 1998 al 2019 sono state detenute arbitrariamente 181 donne per ragioni legate all’aborto e a problemi durante la gravidanza. Le denunce contro le donne vengono presentate dai medici per timore di dover rispondere di complicità per averle assistite. “Un sistema fondamentalista”, secondo Herrera perché applicato su donne giovani, vittime di violenza di genere o di povertà.