La Stampa, 29 febbraio 2020
Biografia di Patrick McGrath raccontata da lui stesso
Rare volte la vita di uno scrittore ha influenzato così tanto la sua opera come nel caso di Patrick McGrath. Ossessionato dalle ossessioni, McGrath ha una notevole famigliarità con la disintegrazione della mente umana e porta i lettori al limite della paura, dove la psiche malata tocca l’orrore del cosmo. Quando era bambino la sua famiglia si traferì nel manicomio criminale di Broadmoor, dove il padre psichiatra era a capo di un gruppo di medici che curavano i malati di mente con l’intento benefico di dar loro rifugio in una specie di struttura protetta e autosufficiente, circondata da 50 ettari di campagna e alte recinzioni. Un microcosmo dove il giovane Patrick pasteggiava a casi complicati e psicanalisi e dove ha potuto incontrare ogni declinazione della follia molto da vicino. Aggiungete a questo quadretto, un padre dalla personalità prorompente, fervente cattolico, che a 13 anni spedì il primogenito di quattro figli in un collegio di Gesuiti, struttura rigida e repressiva da cui il ragazzo a sedici anni scappò per andare a Londra. Ultima tessera del mosaico: il primo lavoro, dopo una laurea in letteratura inglese e americana, è stato in un manicomio in Canada: non c’è da stupirsi che la scrittura di Patrick McGrath ruoti intorno a un tema: la follia.
Nel mezzo, una gioventù piena di turbolenze, tra cui annotiamo un viaggio hippy di cinque mesi in un furgone VW dall’Ontario a San Francisco nel 1972. Un periodo a Vancouver, dove fa l’insegnante per cinque anni. Inquieto e insoddisfatto, convinto che le città sono il male, si trasferisce nelle Queen Charlotte Islands, un arcipelago al largo della costa nord-occidentale del Canada (poco sotto l’Alaska), dove cerca la risposta al senso della vita nel comunicare con la natura. Sul modello del selvatico romantico anarchico costruisce una baita, raccoglie granchi e vongole sulla spiaggia e suona la chitarra nel bar locale per mantenersi. «Ho pensato di vivere lì per sempre» racconta. Per poi convincersi che la vita è invece in mezzo agli umani e nella fattispecie a New York, dove arriva nel 1981 e da dove non si sposta più. All’età di 69 anni è felicemente sposato con l’attrice inglese Maria Aitken, vive tra New York (la maggior parte del tempo) e l’Inghilterra e continua a indagare i segreti della mente umana.
Lei è cresciuto con stupratori e assassini in giardino da quando avevi cinque anni. Cosa sarebbe diventato se fosse nato in un altro ambiente?
«È vero, sono cresciuto con gli uomini e le donne più pericolosi della Gran Bretagna. Erano i pazienti di mio padre, che assunse l’incarico di sovrintendente medico di Broadmoor, il più grande ospedale psichiatrico di massima sicurezza del regno. Si prendevano cura del nostro ampio giardino e sono stati i miei primi amici. È impossibile sapere cosa sarei diventato se fossi cresciuto in un altro ambiente. Uno scrittore, ne sono sicuro. Cos’altro potrei fare con questa immaginazione iperattiva? Ma forse con argomenti diversi, ossessioni diverse».
Perché è così ossessionato dalle ossessioni?
«La mia ossessione per le ossessioni deriva direttamente dal mio forte interesse per tutte le forme di diversità psicologica. Sono ugualmente interessato a narcisismo, paranoia, psicosi, gelosia morbosa, colpa morbosa e devianza sessuale, per citarne alcuni. Mi sono interessato al lavoro di mio padre fin da quando ero piccolo e lui era felice di parlarmene. Era un’autorità sul figlicidio materno, quello che chiamano “il complesso di Medea”. Aveva un certo numero di donne nel suo ospedale che avevano ucciso i loro figli. Ha scritto una tesi sull’argomento».
Suo padre è stato una figura fondamentale nella sua vita. Il suo spettro proietta ancora una ombra lunga sulla sua vita?
«Mio padre è ancora molto nei miei pensieri e mi manca ogni giorno. C’è così tanto di cui vorrei parlargli, ma è morto nel 1994. Ho appena letto tutte le lettere che ha scritto a suo padre e alle sue sorelle durante la Seconda Guerra Mondiale, e sono arrivato a conoscerlo come era 26 o 27 anni, anni prima che io nascessi. Era un bravo scrittore. Posso vedere chi era allora. Quindi non è uno spettro, è una figura viva nella mia immaginazione e lo amo».
Suo padre le trovò lavoro in un manicomio. Poi lei ha fatto di tutto, dal musicista all’insegnante. La scrittura è stata una sorta di uscita di sicurezza? Come ci è arrivato?
«Ha ragione, volevo fare il musicista ma non ero abbastanza bravo e non sapevo come migliorare. Quando ho iniziato a scrivere, a circa 27 anni, sapevo che era quello che dovevo fare. Mi veniva facile. Mi sono impegnato a scrivere fiction e non mi sono mai pentito di questo impegno e non sono mai stato a corto di idee. Ma non lo considero una uscita di sicurezza, lo considero ancora un affare molto rischioso. Non si perde mai di vista la possibilità del fallimento. In realtà fallisco sempre, ma ricordo cosa ci ha detto Samuel Beckett: fallire meglio».
Si ritrova nell’etichetta di “scrittore gotico” con cui si definisce il suo lavoro?
«Molto di più: mi definirei uno scrittore del New Gothic. Sono attratto dalle atmosfere gotiche: una casa solitaria, con l’arrivo della notte, e uno strano suono proveniente da una delle stanze, un suono scricchiolante e forse un po ’piangente. Ma la casa è vuota... Adoro una storia come questa. Ma per me il gotico richiede una forte componente psicologica. Questo è ciò che ci ha insegnato Edgar Allan Poe, così come Freud: che la casa più infestata è la mente umana».
Sempre stato così?
«Da giovane scrittore, quando sono arrivato a New York, ho scoperto che avrei potuto usare un ambiente gotico tradizionale in cui inquadrare un’esplorazione della psicologia umana. Per fortuna ho trovato a New York poi, nei primi anni ’80, nell’East Village e nel Lower East Side, tutte le rovine che uno scrittore gotico poteva desiderare. Ho inventato un genere: il Manhattan Gothic. Ho scritto molte storie in quel genere per una rivista chiamata Between C and D, che si riferiva alle Avenue C e D, molto più in là sul lato est della città».
Il gotico fornisce una struttura per decifrare l’inconscio. Funziona così anche per lei?
«Sì, ho spesso impiegato il gotico per esplorare il lato inconscio della mente. È dalla mente inconscia che sorgono le nostre energie più stranamente distruttive, e anche le nostre energie più creative. Freud è stato importante per me quando imparavo a scrivere. Non mi è mai importato se avesse ragione o torto, perché era sempre estremamente suggestivo e le sue idee mi hanno ispirato. Ho scritto un racconto intitolato Lo Spiedo, in cui un vecchio è perseguitato da centinaia di minuscoli psicanalisti che volano intorno a lui nel suo studio, facendolo impazzire».
È nella raccolta di cui parliamo. In questo e in tutti i racconti, i personaggi soccombono al peso delle emozioni. Dopo così tanti anni a scrivere di malattie mentali, ha capito perché alcune persone non sono in grado di sopportare il peso del caos?
«In Trauma ho cercato di trovare una risposta a questa domanda. Ho scoperto che non c’è risposta. Ma c’è qualcosa che chiamiamo “resilienza”. Se uno la possiede, può gestire un grande stress senza crollare. Non sembra esserci alcuna buona ragione per cui un individuo possiede la resilienza e non un altro. Ma alcuni individui possono attraversare la guerra ed emergere integri e sani. Sanno come gestire i loro incubi, forse. Sanno cosa deve essere represso. Altri hanno meno successo nel reprimere i ricordi dell’orrore in guerra. Questi sono i traumatizzati».
Ha mai temuto di diventare pazzo? Leggendo i suoi racconti viene la paura che possa accadere a chiunque...
«No, mai. Penso che riconoscerei i segni. In periodi di grande stress, tendo ad avere più autocontrollo del solito. Non posso tollerare molto l’isolamento. Sono un uomo socievole. Penso che le persone socievoli non impazziscano».
Chi è più bravo a leggere l’animo umano: uno scrittore o uno psichiatra?
«Lo psichiatra è lì per ascoltare, capire e guarire. Il suo lavoro è terapeutico. La funzione del lavoro dello scrittore è di far luce sulla condizione umana. Ho appena finito un romanzo su un vecchio che teme che sua figlia gli faccia vedere uno psichiatra per vecchi. La sua paura è giustificata. Potrebbe perdere la memoria ma la sua personalità è intatta e non vuole che nessuno interferisca con lui!».
Lei sostiene che l’arte è nemica della follia perché l’arte richiede abitudine e ordine. Perché? Che dire di persone come Van Gogh o Ligabue?
«Penso che Van Gogh sarebbe stato molto più arrabbiato se non avesse dipinto. Il terrore della follia che immagino è il vuoto, l’agonia della perdita di significato o il caos assoluto di troppo significato. Lavorare come artista significa controllare, modellare ed esprimere un significato. Quindi è il nemico della follia!».
Di cosa ha bisogno per scrivere?
«Di una stanza tutta per me, abbastanza calda. Una buona notte di sonno e una buona colazione. Se possibile, qualcuno là fuori che ti ama. Un tavolo e una sedia, una risma di carta e alcune penne. Questo è tutto! Oh sì, e un’idea».
Cosa trova alieno e minaccioso nel mondo in questo momento?
«Cosa “non” è alieno e minaccioso al mondo in questo momento? Vivo in America. Penso che la cosa peggiore di Trump sia il suo progetto di smantellare ogni atto legislativo contro il cambiamento climatico. Nega i cambiamenti climatici. Ama il combustibile fossile e coloro che vogliono cavarlo dalla terra e bruciarlo. Gli Stati Uniti non stanno rallentando ma accelerando il ritmo con cui ci stiamo avvicinando al punto di non ritorno per un futuro vivibile su questo pianeta. È un suicidio».
Altro?
«Stiamo anche assistendo al ritorno del dittatore. Il fascismo sta nuovamente diventando attraente per le figure politiche e i loro seguaci. Stiamo dimenticando ciò che è accaduto in Europa negli anni ’30, e con Stalin, Mao, i Khmer rossi e così via. Stiamo anche perdendo il concetto di verità nella vita pubblica. Abbiamo bisogno di una stampa libera, una democrazia attiva senza interferenze russe nelle nostre elezioni, un equilibrio di potere nel governo in grado di limitare l’ambizione del demagogo e un sistema equo di fiscalità e benessere sociale. È tutto a rischio se non già perso».
Vive a New York dal 1981. Si sente più americano o inglese?
«Americano. Sono disperato per l’America oggi. Quando ho scritto Martha Peake ambientato in parte durante la Rivoluzione americana del 1776-1783, ho capito i principi su cui si fonda questo paese. È difficile credere che tutto ciò andrà perso in questa generazione attuale, ma molti americani temono che l’anima o lo spirito degli Stati Uniti – la “città splendente sulla collina” – andranno persi con un altro mandato di Trump».
Da inglese, cosa pensa dello stato dell’Inghilterra, dopo la Brexit?
«Una tragedia. Pensi per cosa è stata fondata la Comunità Europea? L’idea che gli europei non sarebbero mai più entrati in guerra tra loro. E questo è stato sacrificato per cosa? Qualche idea spuria di “sovranità britannica”. Ridicolo! Viviamo in un mondo fatto di diversità. Perché provare a escludere qualcuno che non è esattamente uguale a te? Questo è lo spirito della Brexit».
La casa di suo padre era piena di libri e da ragazzo lei era un grande lettore. Le ultime generazioni non leggono. Pensa che la loro immaginazione e la loro mente si stiano sviluppando in modo diverso con tablet e smartphone? Possono creare una distorsione della percezione della realtà?
«Suppongo che potrebbero esserci meno lettori di quanti ce ne fossero prima. Ma insegno ai dottorandi in un programma di scrittura alla New School, un’università nel Greenwich Village. Ogni anno abbiamo lezioni piene di giovani uomini e donne desiderosi di imparare a essere poeti, romanzieri, scrittori di racconti, ecc. Non vedo mancanza di entusiasmo per i libri o lo sviluppo dell’immaginazione né percezioni distorte di realtà a causa di smartphone. La tradizione letteraria è ancora fiorente e gli Stati Uniti sono pieni di programmi di tali scrittori, ogni università ne ha uno. Sono fiducioso!».
A proposito di questa raccolta di racconti. Quante mani mozze...
«La mano è un tema ricorrente nella narrativa gotica, che coinvolge spesso una mano recisa che continua a fare il lavoro malvagio del suo precedente proprietario».
C’è anche molta Africa. E scimmie. Perché?
«Non lo so... Ma la mia storia preferita è una di quelle “Africa-e-scimmia”. Si intitola La malattia del sangue. È una storia molto strana e sono sicuro che non sarei più in grado di scriverla oggi. C’è una sorta di anarchia selvaggia nel modo in cui ho messo insieme la vecchia locanda in cui un gruppo di persone che soffrono di anemia perniciosa depredano gli ospiti ricchi per bere il loro sangue, tutto questo mescolato con l’anatomia della zanzara e un esploratore africano, una scimmia Colobus moribonda... Mi sorprende il fatto che ho potuto buttarmi dentro tutti questi elementi e farne una storia coerente. O anche una storia incoerente...».
È terrificante, ma piuttosto coerente...
«Sono anche piuttosto orgoglioso di Ground Zero. Ho vissuto vicino al World Trade Center quando le torri gemelle sono state distrutte. Ho scritto questa storia poco dopo, così da mostrare com’era laggiù, allora».
Ma in questo caso la realtà era più terrificante della finzione.