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 2020  febbraio 29 Sabato calendario

Gli incipit di Patrick McGrath

«Uno psichiatra mi iniziò alle teorie sulla follia quando avevo otto anni. Era mio padre».
Così comincia Writing Madness, splendido testo autobiografico di Patrick McGrath sull’infanzia passata sui terreni del Broadmoor Lunatic Asylum, nel Berkshire rurale, in Inghilterra. In questa struttura di massima sicurezza, nota in precedenza come Broadmoor Criminal Lunatic Asylum, Pat McGrath, l’insigne padre psichiatra di McGrath, fu il decimo (e ultimo) direttore sanitario di quello che era diventato, dall’epoca vittoriana, un manicomio «obsoleto, sovraffollato» e «decrepito» che ospitava ottocento uomini e donne infermi di mente. (Broadmoor era stato inizialmente progettato per accogliere non più di cinquecento pazienti). L’infanzia di McGrath sembra essere stata tuttavia sorprendentemente idilliaca, come spiega in questo testo e nel suo pendant, A Boy’s Own Broadmoor (entrambi in Writing Madness, Centipede Press, 2017; ndr). Fu infatti sui terreni del Broadmoor (che si estendevano per centosettanta acri e comprendevano una fattoria) che il futuro scrittore apprese in giovane età l’esistenza di malattie come la schizofrenia – non una «personalità scissa» (un errore diffuso) ma una «personalità frantumata». Al pari di Edgar Allan Poe, di cui McGrath fu un avido lettore fin da bambino, fu affascinato dalla «disintegrazione della mente»: «una vena di oro nero».
McGrath senior pare sia stato un padre ammirevole, così come un direttore psichiatrico insolitamente liberale, progressista e magnanimo, che compì ogni sforzo per coinvolgere la propria famiglia nelle attività del manicomio, facendola partecipare ad esempio alle funzioni religiose con i pazienti e incoraggiandola a conoscere gli infermi meno gravi. Il dottor McGrath «voleva il mondo esterno all’interno del Muro, e i pazienti al suo esterno, il più spesso possibile»; la speranza era di «spezzare l’isolamento istituzionale» – con il risultato che il giovane McGrath pare aver fatto esperienza dell’assoluta naturalezza di ciò che il mondo etichetta come «follia» e della fluidità di definizioni come «follia» e «sanità mentale». È commovente scoprire che, al Broadmoor, le produzioni teatrali messe in scena dalla compagnia dell’ospedale psichiatrico, i Broadhumoorists, comprendevano, per tradizione, la figura di un alienato in fuga «a prescindere dalla trama». Non sorprende che il dottor McGrath sperasse che il figlio diventasse un medico, uno psichiatra come lui, e vediamo come, nella sua narrativa straordinariamente colta e sensibile, Patrick McGrath abbia interiorizzato l’analista psichiatrico con la sua predilezione per immagini o segni rivelatori e l’attitudine a presentare un racconto – una «anamnesi» – per romanzare quanto potrebbe risultare altrimenti troppo astruso o intimo. McGrath mette al servizio della sua letteratura sfrenatamente creativa, e spesso spettralmente «gotica», un talento narrativo che guarda ai nostri grandi predecessori del diciannovesimo secolo (Poe, Mary Shelley, Algernon Blackwood, M. R. James, Robert Louis Stevenson, Bram Stoker, Joseph Sheridan Le Fanu, Charlotte Perkins Gilman e Ambrose Bierce, tra gli altri) pur essendo assolutamente contemporaneo nel suo sardonico umorismo nero.
La narrazione di McGrath è magistrale e seducente. È sufficiente la lettura dell’incipit del tipico racconto di McGrath per venirne risucchiati, costretti a divorarlo tutto d’un fiato. («Divorare» non è un termine inappropriato, tenendo conto dell’argomento estremo di molti dei racconti brevi di McGrath.) Per esempio:
Tutto molto tranquillo, tutto molto bucolico, cuori in pace sotto un cielo inglese e via discorrendo; e allora perché mi sentivo oppressa da una terribile inquietudine?
Non è una partita di cricket
Avete mai mangiato una scimmia? Da lungo tempo, i Cajun considerano la scimmia-ragno della Louisiana una grande prelibatezza.
Marmilion
Uno degli eventi più memorabili della mia lunga carriera giornalistica fu la serie di interviste che feci ad Arnold Crombeck, l’infame «giardiniere della morte» di Wimbledon, Inghilterra, poco prima che venisse impiccato nell’estate del 1954.
La storia di Arnold Crombeck
Sono un semplice stivale, è vero, e non più giovane. Il mio cuoio è raggrinzito, ormai...
Il racconto dello stivale
Mi chiamo Gilbert e sono una mosca che vive vicino a un laghetto stagnante in una riserva per uccelli.
La patata ero(t)ica
In casa mia c’è una stanza che, per ragioni personali, ho sempre tenuto chiusa.
L’odore
In un giorno fresco e ventoso, nell’umido autunno del suo dodicesimo anno, Evelyn scoprì un esploratore, che si era perduto nel giardino della casa londinese dei suoi genitori.
L’esploratore perduto
Sono stato in città a cercare un falegname: un’esperienza inquietante, perché New York è diventata un posto non tanto di morte, quanto di terrore della morte (…). Oggi è il 4 luglio del 1832, sono cinquantacinque anni che è morta mia madre, e non dubito che la seguirò entro la fine della settimana.
L’anno della forca
Non è posto per una donna, Barbary Rock.
Il naufragio dell’Aurora
Queste storie audaci, originali e inquietanti sono raccontate da narratori a loro volta bizzarri (uno stivale, una mosca – per citarne solo due) e nella maggior parte dei casi onniscienti. Con destrezza, scaltrezza e misteriosa grazia, saltano da un personaggio all’altro, come un film reso surreale dai frequenti stacchi di un montaggio vertiginoso; si veda il brevissimo Lungo il Rift, con la sua brillante esposizione che ci offre lo scorcio di una villa coloniale (nella Rift Valley, in Kenya) la cui parete esterna è stata rimossa per consentirci di vedere gli individui al suo interno, che si immaginano inosservati mentre si comportano in modo riprovevole.
In Ambrose Syme un uomo di Dio crudele, destinato alla dannazione, e «classicista eccezionale» interpreta un canovaccio particolarmente sinistro di desiderio erotico represso, che osserviamo con il distacco di studenti di medicina intenti ad assistere a una dissezione; nel racconto lungo Julius, meditiamo su una famiglia quasi maledetta attraverso l’evoluzione, o involuzione, delle sue fortune nell’arco di decenni in seguito a un tradimento segreto: «Non è che tutti esprimono rumorosamente un identico ammonimento triste? Non è che l’amore negato possa condurci alla follia? Sì, penso di sì».
In un altro racconto lungo, Ground Zero, l’orrore assoluto dell’11 settembre e delle sue devastanti conseguenze viene raffigurato con la moderazione del realismo, evocando una follia che non è sovrannaturale e gotica, ma perfettamente reale – la tetra atmosfera di New York nei mesi successivi all’attacco terroristico, di cui Patrick McGrath offre una testimonianza di rigorosa accuratezza e profonda partecipazione.
L’altro psichiatra è narrato dallo psichiatra di una clinica privata nell’interno dello Stato di New York che potrebbe essere, o non essere, «attendibile» – un degno parente dell’eloquente, e inaffidabile, psichiatra-narratore del formidabile romanzo di McGrath, Follia.
In questi racconti emergono immagini bizzarre, fosche e conturbanti: il moncherino di una mano (La mano di un maniaco) che terrorizza gli osservatori; una minuscola mano nera «che cresceva sulla testa di Cecil» (La Mano Nera del Raj); un crudele, grandguignolesco massacro nel tour de force gotico La malattia del sangue. Nel racconto dall’inquietante titolo L’odore, un gentiluomo rigidamente formale si trova costretto a prendere coscienza di essere l’origine dell’odore che ha contaminato casa sua – «[ero] io l’odore, io la cosa che sgocciolava e puzzava. Dietro la porta chiusa la sentivo ancora ridere, mentre soffocavo lentamente, infilato nel mio camino come un turacciolo sporco in una bottiglia di latte rancido».
Nel racconto più difficile da parafrasare, La patata ero(t)ica, un cadavere umano viene sventrato da saprofagi. Nella parabola post nucleare Il racconto dello stivale il cannibalismo viene opportunamente punito con... altro cannibalismo.
Un atipico vampiro di nome Cleave viene così descritto in Non è una partita di cricket:
Rimasi sorpresa, all’inizio, nel notare la sua bassa statura – soltanto un metro e cinquantacinque (…). Era molto magro, con un viso oblungo dominato dall’enorme mascella di un pallore cadaverico, occhi profondamente incavati, e una fiera chioma corvina, tutta impomatata, pettinata all’indietro da un picco svettante al centro esatto della bassa scogliera di quella fronte sporgente. Era abbigliato con molta eleganza, per quanto piccolo e orribile fosse (…). La creatura parve all’improvviso bloccarsi in piena corsa (sul campo da cricket, ndr), e rimase lì, sospesa in aria, quasi fosse una fotografia, con le gambette sollevate ben sopra il terreno e la testa gettata all’indietro, i capelli scompigliati, una luce rossastra che le ardeva negli occhi...
(C’è mai stato un vampiro più visceralmente vivo sulla pagina, per quanto Cleave irradi caos e morte?). Queste esuberanti immagini da incubo fanno pensare al commento di V. S. Pritchett ai racconti dell’orrore di Le Fanu (che McGrath include nel suo saggio su Le Fanu, In a Glass Darkly): «Grumi dell’inconscio affiorati alla superficie della mente...».
I racconti in questo volume lasciano intravedere la vastità dell’immaginazione e dell’erudizione di McGrath. In quanto legittimo erede dei grandi scrittori gotici del diciannovesimo secolo, e sommo adepto del gotico letterario contemporaneo, McGrath sa cosa significhi essere tormentati da fantasmi, e come trascrivere nel modo più persuasivo gli incubi della «personalità frantumata» che risuonano in ognuno di noi.
(traduzione di Alberto Cristofori
e Andrea Silvestri)