Tuttolibri, 15 febbraio 2020
Su "L’ingrata" di Dina Nayeri (Feltrinelli)
Poi, arrivati all’ultima pagina, è facile dire che L’ingrata è un libro importante, che quella delle migrazioni è la nostra storia e non tanto perché è tutto già successo quanto perché descrive rapporti di dipendenza archetipi, antropologici. Il punto è che bisogna arrivarci alla fine, superando il momento claustrofobico in cui il dolore degli altri diventa il nostro disagio. E dunque assorbire Darius con il corpo pieno di cicatrici e la testa vuota, la siriana Amina che tiene in ordine la baracca rappezzata dal marito falegname come fosse il castello delle fiabe, Farzaneh in mezzo al mare con la piccola Shirin sulle spalle e negli occhi il terrore di sentirla scivolare via, Valid innamorato alla follia di quanto resta della moglie Taara, devastata da un’incidente durante la fuga dall’odio talebano. Sì, perché questo lungo racconto della scrittrice irano-americana Dina Nayeri non si esaurisce nella testimonianza dei senza voce, che in sé sarebbe un documento importante ma non unico: la Nayeri riflette le due facce dello specchio, è stata esule ed è riuscita a varcare il Rubicone, è passata dall’altra parte ed è poi tornata sui suoi passi.
Emigrata bambina negli Stati Uniti, Dina Nayeri non ha mai dimenticato l’Iran né tanto meno il limbo che separa la sua cupa prima vita dalle luci della seconda. Lo status di rifugiato è per lei uno stato della mente da cui non si esce mai del tutto e, dopo avervi dedicato molti racconti brevi, l’ha preso di petto: è andata cercare le tracce della propria esperienza nei volti dei rifugiati come lei, nel campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo, a Katsikas e nei mille non luoghi dove l’umanità migrante attende sapendo che «il futuro è un luogo straniero».
La forza del libro è proprio in quell’ingratitudine suggerita dal titolo, un cortocircuito semantico come il saggio di Moshin Hamid Il fondamentalista riluttante: i migranti suscitano compassione ma anche fastidio, parlano la lingua che vogliamo ascoltare perché hanno imparato che è un permesso più prezioso di quello di soggiorno e sono pronti a vendere l’anima, come il giovane Hamid che espone le bruciature del corpo sperando così di essere notato. Poi però capita che stonino, che tradiscano insofferenza, che si rivelino uomini, donne. «E’ paradossalmente un bene che si lamentio perché significa che sono vivi» spiega a un certo punto all’autrice Paul Hutchings, cofondatore dell’ong Refugee Support. È giusto così: ma resta sullo stomaco.
Intervista a Dina Nayeri
La donna Dina Nayeri usa parole molto più soft dell’autrice, che racconta al lettore la quotidianità dei rifugiati così com’è, cruda, senza retorica né sfumature di grigio perché, scrive, «il linguaggio del dolore è diretto, chi soffre non usa frasi preconfezionate». È l’esperienza reale di un’emigrata negli Stati Uniti a parlare: la vita di una bambina fortunata cresciuta però trascinandosi dietro lo zaino dell’esilio, la zavorra di una storia indelebile.
“L’ingrata” è un pugno nello stomaco. Suggerisce che, oltre la gratitudine, ogni rifugiato celi, nel profondo, desideri non necessariamente coincidenti con quanto gli viene donato. È una provocazione per dire che solo mostrandosi insoddisfatto dell’accoglienza ricevuta lo straniero recupera la sua umanità?
«È un tema complicato, comprende l’esperienza di un grande trauma in cui non si sa cosa venga dopo. Parliamo di una miscela di emozioni, un flusso. Il rifugiato sente la gratitudine per essere in salvo ma ignora se la terra di approdo sia la sua destinazione finale. Mi viene in mente il parto, un cambiamento traumatico: per nove mesi hai il pieno controllo del bambino e poi lui nasce, sei felice ma anche disorientata, fragile, estremamente umana».
Cita spesso Roland Barthes e l’attesa come rapporto di forza tra chi detta il tempo e chi lo subisce. Tutte le attese si equiparano o, come le vite ineguali di Didier Fassin, c’è la serie A riservata al cittadino a tutti gli effetti e la serie B del profugo senza diritti?
«In ballo c’è molto più della nazionalità, c’è tutta la vita, i figli, il lavoro. E non vale solo per i migranti. Chi detiene il potere controlla l’attesa altrui, è sistematico: solo andandosene si recupera il proprio tempo. Inoltre i rifugiati sono bloccati. Se aspetto da americana ho una risposta per questo, controllo il mio tempo. Quando sei nel limbo invece non hai voce».
Scrive che la carità è salvifica ma crea disparità tra chi dona e chi riceve. I fautori dell’“aiutarli a casa loro” ne fanno anche una questione di dignità, meglio investire sul restare che sull’onta di partire. Vede un equilibrio possibile?
«Viviamo nella diseguaglianza, chi è nato in un tal posto ha una certa vita e chi altrove non ce l’ha. Il migrante è grato a chi lo aiuta, ma dovremmo pensare che merita di essere aiutato. Se si fa la carità con umiltà, senza la presunzione di cambiare il mondo e con la coscienza di poterlo solo migliorare, allora si restituisce un po’ di dignità a chi riceve. I migranti non possono scegliere, ma noi, come loro, non abbiamo alcun merito per la posizione in cui ci troviamo. È vero, bisogna smettere di depauperare i Paesi originari dei migranti, bisogna concludere le guerre. Intanto però queste persone sono sospese, i cambiamenti richiedono decenni e a loro basta qualche anno per perdere tutto. Serve equilibrio. Condivido il traguardo di un mondo in cui nessuno debba più lasciare la propria casa. Ma occupiamoci anche del “nel frattempo”».
Pensiamo sempre ai migranti come corpi, quelli indifesi dei bambini o quelli presunti minacciosi degli adulti. Cosa ne è delle loro anime?
«I loro primi bisogni sono fisici, cibo, un riparo, un documento. Poi c’è il resto, fare parte di una comunità, il vuoto interiore che spezza. Preferirei essere affamata per anni che non aver nulla da fare, sentirmi estranea a tutto, non sapere cosa insegnare ai miei figli. Noi in Italia avevamo puntato sull’inglese ma oggi i rifugiati non sanno dove finiranno: su cosa scommettono?
ll’inizio, ai primi che incontravo, dicevo in modo naïf di non perdere tempo, ma loro non sanno come investirlo. È durissima. Per questo ci sono bambini che si tagliano le braccia: concentrare il dolore in una ferita fa meno male».
Le storie dei profughi sono potenti nella loro essenzialità. Eppure, spesso, le raccontiamo cedendo all’artificio, lo sguardo dei bambini, il fantomatico “odore dei poveri”. Cosa ci mette tanto a disagio di fronte a un uomo perduto?
«Si guarda il grande quadro per non vedere i piccoli angoli, in quasi tutte le pubblicazioni sui migranti manca il punto di vista individuale. C’è un po’ di negligenza ma bisogna ammettere anche il bisogno di creare una distanza: noi viviamo nel mondo reale, il popolo dei campi profughi no e non prende le distanze. Bisogna essere onesti senza trascurare di proteggersi. Nel libro racconto un pranzo con una donna anziana che era bello ma anche intimo, troppo, al limite del disagio».
C’è un capitolo in cui descrive la casa di una famiglia di profughi piena di orsacchiotti, l’oggetto più donato ma anche il meno necessario. Quando un’offerta si trasforma nel suo opposto, la materializzazione di quel che manca?
«Direi piuttosto, quando un gesto suona forzato? L’orsacchiotto è un classico: lo si dona ai migranti in segno d’amore ma a loro non serve. E’ come quando tuo figlio prende qualcosa solo per non dispiacerti. Bisogna capire lo iato tra le intenzioni e il loro effetto. E’ pur vero però che i donatori non hanno tante informazioni».
I migranti proiettano sull’occidente i loro sogni. Cosa ci dicono quei sogni di noi?
«Sono una cura contro la compiacenza dello status quo, la stagnazione. Ci ricordano come l’uomo sappia adattarsi diventando più forte, come possa superare un trauma. Portano altre storie nelle nostre città. E, soprattutto, mettono alla prova i nostri valori».
E’ possibile integrarsi in pieno oppure un migrante sarà per sempre un migrante?
«Sul piano individuale siamo bravissimi a adattarci l’un l’altro, cambiamo per amore, per la comunità. Ma l’integrazione non è a senso unico, è sempre un percorso a doppio senso».
Nel campo profughi di Moria ci sono molti iraniani. Crede che la crisi degli ultimi mesi abbia spinto ancor più i suoi connazionali alla fuga?
«Non ne so molto. Oggi l’Iran è orribile, ma ci sono cicli nell’emigrazione. Dal ’79 laggiù è l’inferno delle donne e delle minoranze. Il regime però è furbo, si adatta, porta la gente allo stremo e poi molla prima di reprimere ancora. E’ facile incolpare Trump, le sanzioni, l’occidente: l’Iran è pericoloso».
Cosa è successo in questi anni che ha trasformato l’Italia, l’Europa, l’occidente in una fortezza che si difende?
«I populisti crescono, si è perso il contatto con gli altri. Anche l’american dream era motivo di orgoglio per gli americani, che invece oggi parlano solo dei loro bisogni, la nuova filosofia di vita. Chi emigra fa lo stesso: non pensa più, come ieri, a cosa può fare negli Stati Uniti, pensa solo a come arrivare. Internet non aiuta: si vede il grande mondo, se ne prende la parte che conferma le proprie idee e si crede di aver capito tutto».
C’è una exit strategy?
«Possiamo educare i nostri figli, spiegare loro che non meritano tutto ciò che hanno, che statisticamente è più facile nascere meno fortunati».