La Lettura, 19 gennaio 2020
1QQAFM10 Su "Il bambino nascosto" di Roberto Andò (La nave di Teseo)
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I protagonisti del romanzo di Roberto Andò Il bambino nascosto, pubblicato da La nave di Teseo, sono tre. Il primo è Gabriele Santoro, meticoloso e raffinato professore di pianoforte al Conservatorio. E poi il piccolo Ciro, il bambino nascosto, che fugge da qualcosa di smisuratamente pesante rispetto alle sue forze, condannato alla frequentazione di un mondo troppo più grande e troppo più terribile.
Il terzo protagonista è una città, Napoli. Non tutta Napoli, ma una certa Napoli che ti inganna quando, in un vicolo, da dentro un’automobile con il sonoro azzerato per via del finestrino sbarrato, quasi arriva a sembrare «una città riflessiva, momentaneamente raccolta nella sua natura più intima e segreta», e invece ecco che «una bambina fece capolino dal finestrino, e appoggiò la bocca al vetro, baciandolo in modo osceno» e l’incanto della Napoli riflessiva e raccolta si dissolve in un battibaleno, e viene fuori, prepotente e sconfortante, la città slabbrata e irredimibile da cui Gabriele Santoro vorrebbe sfuggire.
Ci sarebbe anche un quarto protagonista, un’altra città, l’Alessandria d’Egitto di Konstantinos Kavafis, con le sue piazze, i suoi cimiteri, i suoi quartieri, le sue stazioni. La sua atmosfera, che il musicista rievoca a ogni passo e con l’autore del romanzo, Roberto Andò, che all’inizio di ogni capitolo, cita dei versi di Kavafis.
Kavafis è l’unico anello che lega Santoro alla sua vita precedente e a una catastrofe che non si era nemmeno annunciata: «Dei compagni abituali delle sue giornate, l’unico a resistere era Kavafis». E Alessandria d’Egitto rappresenta simbolicamente l’anti-Napoli, o forse è meglio dire l’anti-Forcella, i cui vicoli Andò ripercorre attraverso le pagine disperate di Anna Maria Ortese in Il mare non bagna Napoli: «Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina». E non si sa se possa chiamarsi «plebe» al modo antico, e un tempo a modo suo quasi dignitoso, o comunque non del tutto indecente, quell’accozzaglia di frammenti sociali e antropologici mal amalgamati ma orribili, quell’ammasso social e s e nza fo r ma e s e nza s t i l e , pura di s perazi one e
degrado, che fa da sfondo umano e disumano alle vicende intrecciate del professore e del bambino che nella casa del professore cerca rifugio e salvezza.
Questa Napoli si incarna nel mondo che sta attorno ai boss che comandano e agli scherani che muoiono. In una cerimonia funebre che rappresenta una scena clou del romanzo, dentro una calca soffocante, si schiera «tutta quella parte della città che vuole, a ogni costo, servire il crimine, o esserne vittima». Un incrociare di «volti drogati o assenti», il «fiato pestilenziale del ventre corrotto di Napoli», «tutta l’energia sordida del rancore e della rapina» racchiusa in quel mondo che Andò definisce «di larve».
A questo mondo, prima dell’irruzione dell’imprevisto attraverso un bambino che si intrufola in casa, Santoro cerca di contrapporre un ordine, fatti di studi, di abitudini seguite con pignoleria quasi maniacale, addirittura di tic che assomigliano a ossessioni, come la pratica di recitare versi mentre il rasoio passa sulla pelle liscia del volto.
E poi la musica, i brani che Andò enumera con competenza e gusto del dettaglio, Beethoven e Schubert, César Franck e Svjatoslav Teofilovic Richter, la passione divorante per il pianoforte, le biografie dei grandi musicisti come Maurice Ravel. Tutto un apparecchiare muretti e barriere perché il mondo delle larve di fuori non penetri dentro l’appartamento da singolo, di quella Forcella che Santoro sceglie come rione dove abitare, malgrado l’ironia del padre, che si era chiesto se per caso in quella scelta non ci fosse una volontà di espiare inconfessabili peccati. E poi naturalmente il segreto dei segreti, la sensibilità che gli deriva da una condizione erotica che in quel quartiere resta indicibile, a meno di non volersi esporre ai lazzi e alle ingiurie di uomini atrocemente gretti.
Poi arriva, anzi irrompe, Ciro. Santoro deve proteggerlo. Non è che vuole, non è una scelta come pensa suo fratello, integerrimo magistrato. Santoro non può che proteggere Ciro. Il bambino che è già una piccola scheggia del mondo laido e corrotto dei boss camorristi, che ha già perduto la sua innocenza, anche se Santoro ne ha pietà quando il piccolo fa la pipì a letto, e ne sente tenerezza quando lo placa imitando Totò, la sua andatura dinoccolata e slegata, i suoi movimenti da marionetta, un’oasi di divertimento e di spirito dentro una città che non concede nessun sorriso, dove è sparita ogni traccia di quell’ironia partenopea che, se pur ridotta a stereotipo, offriva un volto meno truce di una metropoli condannata e, a Forcella, in mano alla camorra.
Santoro protegge Ciro, sa che se non lo facesse, la condanna per il bambino sarebbe inevitabile e inesorabile. Sa che per proteggerlo lui, il musicista, il professore, il colto e raffinato esteta rischia tutto, proprio lui che aveva costruito una poderosa muraglia di abitudini per non farsi risucchiare dalla volgarità greve della Napoli in cui aveva scelto di abitare. E Santoro va incontro al suo destino, cercando addirittura di mimetizzarsi nel modello di vita camorrista, dove l’omicidio diventa la scorciatoia per risolvere i problemi in modo del tutto diverso dalle forme che la città civilizzata prevederebbe.
Ha la tentazione di diventare come loro. Si fa insegnare dal bambino come maneggiare una pistola, proprio lui così refrattario a ogni forma di violenza fisica, così immerso nella regolarità esistenziale che la frequentazione assidua della musica. Fallisce, perché del killer non ha né la tecnica professionale né soprattutto lo stato d’animo. Ma insiste, vuole andare fino in fondo, come se la sola presenza di quel bambino oramai inerme fosse diventata per lui l’inizio di un nuovo capitolo della vita. Come se non ne potesse più fare a meno. Come se il suo procedere verso un sacrificio inevitabile costituisse una tappa del suo destino. Come se l’insegnamento ricavato dai versi di Kavafis gli imponesse di seguire fino alla fine una strada imboccata per caso ma oramai percorsa come se fosse del tutto naturale nella sua vita seguirla con determinazione, malgrado ogni invito alla prudenza, e al realismo. Se ne accorgerà il fratello magistrato, che finirà per proteggere anche lui il piccolo Ciro. Il bambino nascosto. Il destino nascosto di due fratelli.