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 2020  febbraio 28 Venerdì calendario

Vincenzo Mollica va in pensione. Intervista

ROMA. «Conservo solo le cose importanti, il resto è nella mia testa» risponde Vincenzo Mollica, 67 anni, quando gli confessiamo che ci saremmo aspettati di trovare il suo appartamento foderato di libri, dvd, cd e fumetti. L’ultimo mostro sacro della Rai va in pensione. Visto da vicino sembra un professore di provincia. Veste un cardigan marrone e pantaloni comodi, intreccia le mani e chiude gli occhi nello sforzo di pescare i ricordi, che poi srotola come un computer. È come se la cecità, a cui è costretto da quattro anni, avesse reso il suo sguardo più acuminato. Sabato è il suo ultimo giorno al Tg1, dopo quarant’anni ininterrotti alla redazione spettacoli.
Ricorda il primo giorno?

«25 febbraio 1980. Avevo 27 anni. Due giorni dopo di me è stato assunto Enrico Mentana».
Suo padre lavorava nella segreteria del leader dc Benigno Zaccagnini. Entra in quota democristiana?
«Entro in quota Emilio Rossi, veramente. Voleva puntare sui giovani, svecchiare. Dopo un po’ andai da lui e gli dissi che volevo fare un servizio su Pippo, per dire che era anche un filosofo. “Puoi dimostrarmelo?”, mi scrutò scettico. Il servizio uscì. Ho portato le mie passioni».
Quanti direttori ha avuto?
«Ventisette».
Quanti Sanremo ha seguito?
«Trentanove. Il primo fu nel 1981. Vinse Alice con Per Elisa. Musiche di Franco Battiato e Giusto Pio».
Com’era quel Festival?
«Molto diverso. Nella seconda parte degli anni Settanta la Rai trasmetteva soltanto l’ultima serata».
Quanti Oscar ha seguito?
«Trenta. Il primo nell’89: vinse Peppuccio Tornatore con Nuovo Cinema Paradiso. Andai a Los Angeles con Lello Bersani, il più grande cronista di spettacoli di sempre. Mi fece copiare i numeri della sua agendina. Era piena di pepite. Trascrissi quelli dei morti, da Luchino Visconti ad Anna Magnani».
Li ha mai composti?
«Un giorno feci quello di Anna Magnani e mi rispose il figlio Luca. Fu fondamentale per un servizio».
Quante volte è stato al festival di Venezia?
«Credevo dal 1983. Invece alle Teche Rai hanno trovato un mio servizio del 1982, che avevo rimosso: le Teche non mentono mai».
È vero che ha scritto 62 libri?
«Nel frattempo sono diventati 64. Ho sempre lavorato tantissimo. Una volta Fellini mi disse: “È la curosità che ti fa svegliare la mattina”».
Lei gli fu molto amico.
«È stato la mia università. Certi pomeriggi mi telefonava, dalla sua casa in via Margutta, e mi invitava a cena. Gli piaceva mangiare prestissimo, cenavamo con i camerieri, poi salivamo sulla mia Uno rossa con i vetri scassati e scorrazzavamo per Roma. Davanti al colonnato di San Pietro mi chiedeva sempre di scendere».
Com’era il rapporto di Fellini con Mastroianni?
«Lo considerava il suo alter ego. Una sera ero con Fellini da Canova. Gli chiesi di Marcello. “È ad Atene, a girare con Angelopoulos”, mi ripose. Un cameriere s’intromise: “Maestro, ma Mastroianni sta nella sala interna”. Mi alzai e lo trovai seduto a un tavolino che fumava. “Aspetto che imbrunisca, così poi posso prendere un taxi”, disse. Tornammo da Fellini: “Ho detto a Flora che andavo in Grecia, e per rendermi credibile ti ho telefonato”, disse Mastroianni. Fellini non commentò quella bugia. Fecero finta di darsi dei pugni, come due bambini che giocano».
Ha tenuto almeno un archivio?
«A Saxa Rubra ho sette armadi con tutte le mie interviste. Solo di Benigni, sono 63 cassette. È quasi tutto inedito. Su Vasco Rossi ho fatto otto speciali».
Come si racconta una buona storia?
«Non bisogna avere fretta, ma farla respirare dentro di te. L’importante è che alla fine il pezzo assomigli il più possibile alla persona raccontata. Adesso devo fare un servizio su De André, era molto amico mio, e l’ho raccontato tante volte. È tutto il giorno che penso a cosa posso aggiungere di nuovo».
C’è un segreto?
«Asciugare il superfluo, andando dritti al cuore delle cose. Ogni volta è una fatica».
La fa soffrire la cecità?
«Una volta Camilleri mi disse: “Anche il non vedere è un’arte. Si può vedere annusando, ascoltando, tastando”».
Lei non vede più niente?
«Mi è rimasto il 5 per cento dell’occhio destro, ma come annebbiato. Se metto la mano davanti agli occhi vi scorgo solo l’indice e l’anulare. Totò aveva la mia stessa malattia, il nervo ottico lesionato, ma quando partiva il ciak diceva: “Ora vedo tutto”. Scrivo a braccio, un minuto e mezzo. Ho un timing interno».
E come fa con le ricerche?
«Mi aiuta Siri. Per il resto ho dovuto imparare a scrivere nella mia testa. Ho scoperto che così le tue parole diventano ancora più essenziali».
Chi l’ha accompagnata al lavoro in questi anni?
«Mia moglie, Rosemarie. Mi porta alle 9 a Saxa Rubra e mi viene a prendere alle 19.30. Da sette anni convivo anche con mister Parkinson e con miss diabete, ma ho cercato di non farmi condizionare: questo lavoro è sostanza della mia vita».
(Interviene Rosemarie, ex insegnante di Lettere: «La vita con Vincenzo è stata meravigliosa. È un grand’uomo». «Non è vero che sono un grand’uomo», si schermisce lui).
Quando vi siete conosciuti?
«Eravamo studenti alla Cattolica. Il giorno di San Valentino del 1973 la invitai a vedere un concerto di Gaber al Teatro Lirico. Quattro anni dopo ci siamo sposati. Siamo figli unici e abbiamo voluto una sola figlia, Caterina, che ha 35 anni. Questa storia del concerto l’ho raccontata un giorno a Gaber».
Lei li ha intervistati tutti.
«Mi mancano Bob Dylan e Mina, che non dà interviste. Ma siamo amici».
Ha sempre parlato bene di tutti.
«Ma non è vero».
Beh, è il suo stile. “Un’iperbole di bontà”, ha scritto Aldo Grasso nella Garzantina. È giornalismo parlare sempre bene di tutti?

«Il punto è che io ho sempre parlato solo di chi meritava».
Ha mai stroncato?
«Ho preferito l’ironia. Come quella volta che Kevin Costner si presentò ubriaco a un appuntamento».
È buonista?
«No, sono umile. L’umiltà ti fa vivere per quello che sei. Non mi sono mai piaciute le domande inquisitorie. Io i personaggi li studio a fondo, ma poi non preparo mai alcuna domanda».
Sta curando la mostra a casa Sordi. Che tipo era?
«Un attore anche nella vita. Un giorno andammo in una fabbrica in Umbria. Aveva tutti ai suoi piedi. Si congedò con il gesto dell’ombrello dei Vitelloni: “Lavoratoriiii”. Gli operai esplosero in un evviva che non finiva più. Uscendo mi disse: “A Vincé, dije a Federico che ancora funziona”».
Qual è il suo film del cuore?
«La Strada, di Fellini».
E la canzone?
«Azzurro, cantata da Celentano».
Che libri consiglierebbe a un giovane?
«I fratelli Karamazov di Dostoevskij, Fare un film di Fellini e Atlante occidentale di Daniele Del Giudice».
Fiorello è il più bravo di tutti oggi?
«Una benedizione. Sa fare tutto. E si sveglia presto. Alle 7, quando mi alzo io, mi aveva già mandato con WhatsApp le battute per Viva Rayplay, che lui poi utilizzava per il Muppet».
Com’era la Rai dei suoi inizi?
«Mi parve di entrare a Disneyland. C’erano dei fenomeni come Enzo Biagi. Che mi diede il consiglio di puntare sempre al massimo per un’intervista. “Comincia sempre da Dio che poi a scendere si fa sempre in tempo”».
Che Italia era?
«Uscivamo dal terrorismo, c’era una gran voglia di ricominciare. Era un’Italia meno complessa, più decifrabile. Ma anche più accogliente. Si sentiva ancora il profumo di parole bellissime, come libertà e democrazia».
Questa Italia le piace meno?
«Mi colpisce la volgarità, la fragilità del pensiero. Un tempo in tv non si urlava mai, ora si grida spesso, se urli vuol dire che il tuo ragionamento è debole».
Quali immagini ricorrono nella sua memoria ora che è cieco?
«Mi rivedo mentre porto Caterina all’altare. Era il 4 settembre 2016».
La spaventa il vuoto della pensione?
«No. Farò mia la lezione di nonna Noemi, cuoca, che quando ero bambino mi disse: “Ricordati sempre di inseguire le cose che rimangono”».