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 2020  febbraio 28 Venerdì calendario

L’Italia era all’avanguardia nella lotta alla peste

I metodi che impieghiamo per contrastare la diffusione delle epidemie hanno origini antiche e neppure sono nuove le difficoltà pratiche nella loro applicazione - forse perché gli uomini di oggi non sono più saggi o razionali di quelli del passato. Nello sviluppo di questi metodi la lotta contro la peste svolse un ruolo assai importante. Vale la pena ripercorrerne la storia in cerca di insegnamenti per la crisi attuale.
Nella lotta alla peste, a partire dal suo ritorno in Europa e nel Mediterraneo nel 1347, gli Stati italiani furono all’avanguardia. Il «lazzaretto vecchio» di Venezia, edificato nel 1423 su un’isoletta della Laguna, non fu la prima struttura specializzata per l’isolamento dei portatori di morbi contagiosi, ma fu la prima struttura permanente: dato importante, poiché consentiva a Venezia di intervenire istantaneamente nel caso di minacce alla salute pubblica e di sottoporre a quarantena uomini e merci. In Italia apparvero anche le prime commissioni permanenti di sanità, di cui il nostro Istituto Superiore di Sanità è il diretto discendente. 
Secoli dopo, nel Seicento, quando l’Europa fu colpita dalle ultime grandi pestilenze, il meccanismo di prevenzione e contenimento del contagio era molto più complesso e organizzato su vari livelli. In primo luogo, i controlli ai confini di Stato, che in caso di rischio di peste potevano essere attraversati solo se in possesso di appositi certificati di buona salute, le «fedi di sanità». 
Entro ciascuno Stato singole comunità potevano essere sottoposte al «bando», ovvero a isolamento tramite cordone sanitario. Il bando comportava il divieto per chiunque si trovasse in queste comunità di uscire dai loro confini ed era fatto rispettare da squadre armate. Infine, entro ciascuna comunità infetta venivano creati lazzaretti temporanei, oppure, se esistevano, si sfruttavano i lazzaretti permanenti. Queste strutture non erano solo di isolamento, ma anche di cura, e non è detto che aumentassero il pericolo di contagio per i ricoverati sani in sospetto di peste. Al contrario: ricerche in corso sulla città di Carmagnola durante la peste manzoniana del 1630 suggeriscono che per i sani il ricovero al lazzaretto aumentava le probabilità di sopravvivere fino al termine dell’epidemia.
Tutto ciò, ovviamente, quando il sistema funzionava a dovere. Alle prime avvisaglie di peste, molti si davano alla fuga. Alcuni tentavano di forzare i cordoni sanitari, nonostante pene severe. Questi comportamenti, dettati dal panico o da opportunismo, favorivano l’ulteriore diffusione del contagio. Purtroppo li abbiamo visti puntualmente replicati nella crisi attuale. 
Molte difficoltà sorgevano poi al livello intermedio, ovvero quello dell’isolamento di specifiche comunità. Timorose dei gravi danni economici causati da un bando, dovuti all’interruzione dei traffici commerciali e all’intralcio alle attività produttive, le comunità cercavano inizialmente di nascondere i casi sospetti di peste ed erano restie ad applicare le indicazioni provenienti dalle autorità sanitarie dello Stato. Fortunatamente, in questi giorni le comunità locali sono state molto pronte a segnalare casi sospetti, tuttavia è evidente che il problema di coordinamento tra istituzioni sanitarie e di governo nazionali, regionali e locali esiste e di certo non è agevolato dal decentramento della sanità pubblica. 
Da ultimo, i controlli ai confini tra Stati. In epoca di peste, oltre ai soliti furbetti poco saggi, i problemi principali venivano da due categorie di possibili portatori del contagio: i contrabbandieri e gli eserciti. Questa almeno speriamo di risparmiarcela.