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 2020  febbraio 28 Venerdì calendario

La bellezza di Venezia svuotata dal virus

Da qualche giorno ho capito che cos’è cambiato nel mio passaggio quotidiano sulle Zattere, all’altezza del supermercato Conad che rimane spesso aperto anche durante l’acqua alta e che dunque è aperto anche adesso. Il canale della Giudecca è sostanzialmente vuoto, questo è cambiato. In una città silenziosa come Venezia, in pochi giorni, è aumentato il silenzio. Due rumori, soprattutto, sono spariti: il rombo dei motori dei «lancioni» che scorrazzano i turisti per la laguna e lo stridio regolare delle ruote dei trolley nelle calli. Il Canale della Giudecca si è svuotato, le calli si sono svuotate. 
I numeri che hanno portato a questo silenzio non li conoscevo prima di mettermi a scrivere, perché quando vivi in un posto, minimizzi o non ci badi, egoisticamente, sabato sera ho anche pensato «si può andare a San Marco senza camminare in fila indiana da Rialto in poi». Poi però a San Marco non sono andata. Non ci vado spesso. E ho capito, con una certa vergognosa tristezza che pure io, talvolta, sono presa dal voler togliere agli altri qualcosa che, in realtà, non voglio. 
Mi infastidiva, per esempio, pensare ai turisti in fila e a me in mezzo, anche se non avevo, in realtà, nessuna intenzione di andare a Rialto o a San Marco. I numeri dicono il 60% di disdette. La dichiarazione di Marina Lalli, vicepresidente della Federturismo Confindustria all’Ansa è «la stampa internazionale ha ripreso il nostro spirito allarmistico e in 48 ore siamo diventati un Paese non sicuro in cui è meglio non viaggiare e da cui è meglio non accogliere viaggiatori».
Domenica mattina camminando verso la stazione, da San Basilio, dove abito, ho incontrato solo quattro persone, ma, mi sono detta, «non sono nemmeno le sei». Tre persone a Piazzale Roma. Vicino a un taxi spento stavano due ragazzi e una ragazza, vestiti da Carnevale, si passavano un bicchiere di plastica, forse con dentro un Gin&Tonic, bevendo dalla cannuccia. Guardandoli ho pensato a quante volte avevo fatto le cinque. Arrivata alla stazione di Santa Lucia ho incontrato la quarta persona, un uomo veniva dal capo opposto della stazione e siamo entrati insieme nel bar. Mi ha ceduto il passo. 
Nella giornata di domenica però, mentre rientravo a Venezia, ho cominciato a leggere notizie sul coronavirus, allarmistiche e ripercorrendo la mia mattina e la mia giornata fino a quel momento ho rivisto i tre ragazzi di piazzale Roma come in quella storica pubblicità dell’Aids dove le persone si toccavano e intorno compariva un alone fucsia. E la stazione di Santa Lucia come un set western, dove io e l’uomo che mi ha ceduto il passo eravamo in realtà due pistoleri in Mezzogiorno di fuoco. 
Credo che gli esseri umani, a cominciare da me, riescano a preoccuparsi dei problemi solo se ne sono in parte protagonisti. La mia immaginazione è mitomane, fanfarona, ma ci sono immaginazioni più quotidiane: accaparrarsi l’ultima scatoletta di tonno o l’ultima banana, infilarsi la mascherina o i guanti di lattice e sentirsi al sicuro, barricarsi in casa con la televisione accesa e accettare che quella sia la realtà. Immaginazioni di protagonismo che ci impediscono i gesti misurati e collettivi che andrebbero e vanno fatti. Gesti riassumibili nella frase, nella prassi, «cercare di contenere il contagio», cioè lavarsi le mani, non muoversi se non è necessario, non tossire o starnutire in faccia al prossimo (che, in ogni caso, è anche solo buona educazione). Non credo che le epidemie si debellino solo con la buona educazione ma penso che una prassi civile, amministrativa, un’informazione che non passi solo da titoli allarmistici, e un sano principio di realtà aiutino a gestire l’emergenza. L’emergenza non è un’Apocalisse, è un’emergenza. Non è l’Apocalisse. L’altro giorno Paolo Giordano, sul Corriere della Sera, lo diceva bene attraverso il racconto dei modelli epidemiologici. Prima ancora, Adriano Sofri sul Foglio sottolineava quanto sarebbe importante avere sempre in mente la differenza fra una statistica e una vita. Ed è l’emergenza a far parte della vita, l’Apocalisse è invece la fine del tempo.
Non mi stupisce che l’ansia del contagio abbia soppiantato la possibilità del contagio stesso perché le epidemie, specialmente quelle che possono essere (ed essere raccontate) come mortali, portano all’idea di Apocalisse, e l’Apocalisse è deresponsabilizzante. Se tutto finisce non ci sono azioni e conseguenze. Se tutto finisce, allora è inutile preoccuparsi dell’immaginazione del Paese. Non avendo la nostra classe politica, per la maggior parte del tempo, una idea di futuro, è comodo, anche politicamente, sposare l’Apocalisse. Così è stato. E abbiamo imparato che la nostra politica non si occupa più nemmeno della nostra economia.
A Venezia ci sono ancora le luci delle feste di Natale. Sotto i portici di Piazza San Marco e nei canali laterali. In certe calli si mischiano, all’altezza delle finestre del primo piano, a fiocchi carnascialeschi di carta e bottiglie di plastica. I rumori non sono ancora tornati. Ma forse questo disagio economico, dopo l’ultima acqua alta, è l’occasione per ripensare Venezia non solo in base al numero di camere disponibili, negli alberghi e nei B&B, nelle case private, ma come una città di formazione, creatività e ricerca, come un presidio culturale di tipo non solo turistico.
Mi chiedo che cosa avrebbe detto Cesare De Michelis, veneziano e fondatore della Casa editrice Marsilio, di questa ansia da contagio che ha superato la possibilità di contagio stesso. E me lo chiedo perché Cesare, che non c’è più da quasi due anni, aveva risposte sorprendenti a molte questioni a cui, per mondanità, si risponde come rispondono tutti, cioè senza pensare, per sentito dire. Rispondere alle domande con una eco inane mi pare il principale problema civile di questi giorni in cui la parola coronavirus è sovrabbondante rispetto al coronavirus stesso.