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 2020  febbraio 28 Venerdì calendario

Intervista a Amedeo Feniello

Come cambiano i libri di storia quando includono nel racconto i cambiamenti climatici, le eruzioni vulcaniche, i cicli solari, i virus devastanti? Anche in Italia la storiografia si tinge di verde nel solco tracciato in Francia da Emmanuel Le Roy Ladurie e in Inghilterra, in tempi più vicini, da studiosi come Kyle Harper e da Bruce Stanley Campbell, abili nel registrare declini e rinascite delle popolazioni sulla base di categorie ambientali. Il nuovo sguardo green compare nelle pagine d’una recente Storia del mondo (Laterza), scritta da Francesca Canale Cama, Amedeo Feniello e Luigi Mascilli Migliorini. «In Italia gli storici hanno mostrato maggiore resistenza alle tematiche del clima e dell’ambiente», dice il professor Feniello, specialista dell’età medievale e artefice dei capitoli incentrati sui grandi cambiamenti climatici dall’anno Mille a oggi.
«Noi abbiamo cercato di colmare questa lacuna, utilizzando una letteratura che si è nutrita di fonti non disponibili fino a venti o trent’anni fa e alle quali è possibile ricorrere oggi grazie all’ingegneria genetica o alla biologia molecolare».
Che cosa aggiunge l’adozione di questo nuovo sguardo?
«Cambia completamente la prospettiva. È grazie alle ricerche di Kyle Harper se oggi attribuiamo il declino dell’antica Roma non solo agli imperatori o ai barbari ma anche all’instabilità del clima o al movimento dei vulcani. Fino a trent’anni fa, chi avrebbe mai pensato si studiare “el nino” o “la nina”? Sono fenomeni di “teleconnessione atmosferica” che ci permettono di ricostruire i periodi di violenta siccità alla fine del Duecento sulle coste del Pacifico».
Lei rilegge la storia dell’Occidente latino alla luce dell’optimum climatico, ossia di un clima relativamente caldo, tra il X e il XIII secolo. Ma cosa scopriamo di quel periodo che prima ignoravamo?
«Allarghiamo enormemente la lente di osservazione. Fino a una quindicina d’anni fa, si pensava che la grande mutazione nell’ambito europeo, tra il decimo e l’undicesimo secolo, derivasse dalla scoperta di nuove tecniche agricole. Oggi, puntando sul fattore climatico, ci si può concentrare sugli spostamenti migratori facilitati da migliori condizioni ambientali: mi riferisco alla colonizzazione della Germania, allo slittamento del confine dell’Occidente latino verso Est e al movimento delle popolazioni scandinave verso l’Islanda e la Groenlandia finalmente libera da ghiacci. Sono tutte conseguenze di quell’optimum climatico».
Il clima più mite ebbe un effetto sulla crescita
demografica.
«L’effetto più plateale fu l’aumento della popolazione. Il miglioramento della produzione agricola permise la nascita di un “mercato” che garantiva l’approvvigionamento di zone lontane. In questo modo aumentavano le possibilità di sopravvivenza».
Sempre attraverso la lente climatica, lei racconta gli effetti devastanti del successivo raffreddamento.
«Tra il 1306 e il 1311 si registrarono gli inverni più freddi del secolo.
Sono gli stessi cronachisti dell’epoca a raccontarci “i morti che camminano” per strada alla ricerca di cibo. Le carestie esplosero in Inghilterra come in Italia, in Spagna, in Germania e in Francia. Ed è su questa popolazione già provata che si diffondono le epidemie, sia nei centri urbani che nelle campagne».
A proposito della più grave pandemia dell’umanità, ossia la peste nera alla metà del Trecento, il virus partì dalla Cina.
«Sì, la peste è figlia della prima grande globalizzazione. Senza la rete degli scambi internazionali, dalla Cina al Mediterraneo, il virus non si sarebbe potuto muovere. I principali vettori dell’epidemia sono i mercati, le strade, le rotte commerciali, le carovane, i porti. E il contagio finisce per esprimersi meglio proprio sulle strutture ruggenti del commercio globale».
Mutatis mutandis, anche il coronavirus è figlio della globalizzazione.
«Certo, anche oggi l’epidemia si diffonde attraverso i nodi nevralgici del commercio mondiale. E non deve sorprenderci che il contagio veda sempre coinvolta la Cina, un centro fondamentale della globalizzazione, allora come oggi».
Che cosa impariamo dalla peste del Trecento? Lei scrive che saltarono tutti i vincoli religiosi e morali e cominciò un’era nuova fatta di paure e disinganni.
«La cosa più interessante è la capacità di adattamento manifestato dagli esseri umani.
All’indomani della Yersinia Pestis l’Occidente latino seppe riorganizzare le sue abitudini sociali, politiche ed economiche secondo registri più complessi rispetto all’epoca precedente: dalla nascita delle confraternite per i malati alla costruzione degli ospedali alla fondazione di nuove strutture bancarie. La storia dimostra che, di fronte agli choc più potenti, la comunità prima si adatta e poi cresce».
Paradossalmente le epidemie sono uno stimolo al progresso?
«Le crisi sono sempre occasione di opportunità, come dice Edgar Morin. Colpisce che, di fronte al contagio, l’attuale forma di profilassi sia simile a quella del Trecento: l’isolamento, la creazione di un cordone sanitario intorno all’epicentro dell’epidemia. Oggi sicuramente è più facile aggirarlo».
L’altro elemento costante è l’esplosione di irrazionalità, allora certo più comprensibile.
«Nel Trecento si pensava che la
Yersinia Pestis fosse opera del diavolo che annunciava la punizione divina con piogge di fuoco o con un diluvio di serpenti, scorpioni e altri animali velenosi.
Oggi si assiste alla riproposizione di terrori (infondati) di natura millenaristica, come la paura apocalittica della pandemia mortale».
Secondo lo storico inglese Richard Evans, l’Ottocento segnò il definitivo dominio dell’uomo sulla natura selvaggia. Possiamo dire che oggi la natura si prende la sua rivincita?
«Oggi è venuta meno la fiducia positivista del potere assoluto dell’uomo sull’ambiente. Siamo sempre più consapevoli che il pianeta è dotato di ritmi e di equilibri suoi propri: basta poco per sbilanciarlo».
Abbiamo visto come il clima ha cambiato la storia in passato. Ma come la sta cambiando oggi?
«Tutti gli indicatori descrivono una situazione catastrofica. Le variazioni climatiche potrebbero provocare bombe migratorie e significativi mutamenti nell’assetto delle coste e nel nostro ambiente marino. Per dodicimila anni la terra ci ha accolto più o meno benevolmente. Oggi non sappiamo se il pianeta sia disposto a farlo ancora, se non correggiamo radicalmente alcune nostre abitudini».