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 2020  febbraio 28 Venerdì calendario

Il caso di Marianna Manduca

La legittimità di uno Stato democratico a essere riconosciuto come tale e a esigere ubbidienza dai propri cittadini si fonda su un patto e si affida a uno scambio. Lo Stato, cioè, garantisce la sicurezza e l’incolumità fisica (in primo luogo fisica) dei membri della collettività: e questi si impegnano a rispettare le leggi e a onorare i doveri derivanti dall’appartenenza alla comunità nazionale. Se questo è vero, possiamo dire da subito che Carmelo, Salvatore e Stefano, figli di Marianna Manduca, dovrebbero considerarsi sciolti da ogni vincolo di lealtà verso lo Stato italiano. Quest’ultimo, infatti, ha mancato nella maniera più tragica all’impegno di tutelare la vita della loro madre non impedendone l’assassinio. La storia è nota, Marianna venne uccisa nel 2007 dall’ex marito, dopo aver sporto contro di lui una dozzina di denunce, per violenze e minacce. In primo grado lo Stato venne condannato a un risarcimento di 259.000 euro, più gli interessi a favore dei figli (all’epoca di 3, 5 e 6 anni), poi adottati tutt’e tre dal cugino di Marianna e da sua moglie.
I ragazzi e la loro nuova famiglia oggi vivono nelle Marche dove – grazie al risarcimento loro riconosciuto – hanno potuto aprire un bed & breakfast che costituisce la sola fonte di reddito.
Nel marzo del 2019, la Corte d’Appello di Messina ha annullato il risarcimento, imponendone la restituzione. Infatti, nonostante in primo grado fosse stata riconosciuta la “colpevole inerzia” da parte della procura della Repubblica, i giudici di secondo grado hanno scritto che “manca la prova della ricorrenza di un nesso di causalità tra l’inerzia e l’omicidio. D’altra parte – scrivono i giudici – mai l’omicida avrebbe potuto pensare di farla franca, – quindi – neanche la consapevolezza di essere controllato e di essere il potenziale sospettato lo avrebbe distolto”.
In realtà la sentenza della Corte d’Appello non è così sprovveduta come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Sottolineando come lo Stato all’epoca “non fosse dotato degli strumenti normativi per contrastare il fenomeno”, la sentenza ridimensiona “la colpevole inerzia” della Procura a una sorta di distrazione professionale o, al più, a una trascuratezza deontologica.
Ed è difficile comprendere, sotto il profilo logico, il significato di una considerazione come questa: se anche la procura avesse disposto il “sequestro del coltello non avrebbe impedito la morte della giovane mamma”, in quanto – come precisa lo stesso magistrato nell’intervista di Salvo Palazzolo su queste colonne – “avrebbe potuto facilmente procurarsi un altro coltello”. Se questo assunto venisse universalmente adottato, l’intera categoria di prevenzione penale ne risulterebbe annichilita e la storia della criminologia dovrebbe essere riscritta da cima a fondo”. Aggiunge il magistrato: “Lo Stato è sicuramente in debito con quei tre orfani, perché solo dopo si è attrezzato. Quindi se un responsabile teorico c’è non è il pubblico ministero, ma lo Stato che non si era dotato” delle misure giuste. Di conseguenza, questo è il ragionamento, per quell’epoca “il delitto era inevitabile, considerata l’assenza di strumenti adeguati”.
E così, sullo sfondo si materializza un crudele fantasma del passato riassumibile in una parola che è, allo stesso tempo, fatalità e condanna. “Inevitabile” è il termine maledetto, quello che sembra seppellire sotto il peso della ineluttabilità una condizione femminile che disperatamente (vanamente?) ha tentato di emanciparsi.
“Inevitabile” suona come la definizione inappellabile di uno status che non può conoscere redenzione. È l’aggettivo qualificativo di una immobilità greve e vischiosa, che non consente scampo e non prevede salvezza.
E tuttavia le cose non stanno affatto così. Dietro quella sentenza di appello c’è l’angustia culturale di giudici incapaci di cogliere come la giurisprudenza (non solo quella delle corti sovranazionali) vada in tutt’altra direzione. L’obbligo dello Stato di tutelare l’incolumità dei cittadini è affermata come priorità, per esempio dalla Corte europea dei Diritti umani, tanto più in presenza di una evidente vulnerabilità. La palese fragilità della possibile vittima deve indurre gli organi di contrasto ad assumere iniziative volte a tutelarla.
In questo caso, il “ragionevole sospetto” di vulnerabilità della vittima – che la Cedu ritiene necessario per attivare gli obblighi positivi di protezione – era infatti reso palese dal numero così elevato di denunce sporte dalla donna, in un tempo ravvicinato.
Come si vede, nulla di così assolutamente “inevitabile”. E nessuna ineluttabilità del fato. Bensì, l’eterna questione del senso d’attribuire alla giustizia. Se, come dice il Vangelo, “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, si comprenderà che solo una giustizia fatta per gli uomini e per le donne (e non il suo contrario) potrà evitare che “gli affamati di giustizia vengano giustiziati”.