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 2020  febbraio 28 Venerdì calendario

Biografia di Antonio Pennacchi raccontata da lui stesso

A passeggiare per Latina con Antonio Pennacchi si rischia la pelle in vari modi. Perché a un passante che impreca per fatti suoi lui indirizza un «ma vaffa’ tu» o perché si ferma in mezzo alla strada al culmine di un’invettiva partita dalla necessità di superare l’antifascismo e approdata all’Iliade, a Priamo e Achille «vittime e carnefici che si abbracciano, piangendo ambedue sul dolore del mondo». Maestro, azzardo timidamente, quell’auto ci stava venendo addosso. Niente. Pennacchi resta lì. «Priamo piange pensando a suo figlio Ettore ucciso da Achille, Achille lo abbraccia e piange pensando a suo padre, al suo amico Patroclo morto e pure a Ettore, che lui ha ucciso, e a se stesso, che verrà ucciso. E quindi insieme piangono sulla condizione umana, che è la stessa, a prescindere dalla parte in cui stai». Io: maestro, siamo sempre in mezzo alla strada. Pennacchi, però, sta pensando a sé «fasciocomunista» come nel titolo di un suo celebre libro, e alle botte, vere e metaforiche, date e prese stando da una parte o dall’altra. «Capisce? Io ero Achille e ho dovuto fare Achille. Tu eri Ettore e hai fatto Ettore, ma siamo uguali. È il polemos, è la legge del più forte. Allora, questo Paese deve non perdonare, ma elaborare. Invece, nel 2020, siamo ancora al paradigma antifascista». S’avvia al marciapiede, scuote il capo, avvilito. «Io parlo, parlo, e lei chi sa che scrive». 
Andare in giro per Latina con lo scrittore che nel 2010 ha vinto lo Strega raccontando in Canale Mussolini Latina e la sua gente, quei migranti venuti qui a domare paludi, è come trovarsi in un romanzo dal vivo. Ti mostra la Banca d’Italia dove nel ’44 i tedeschi fecero saltare il caveau che suo zio svuotò con la carriola, fregando sia i tedeschi sia gli americani, e questa è la scena che apre Canale Mussolini parte seconda. Ti porta nelle piazze dove ha manifestato prima da fascista, poi da sindacalista, quando per trent’anni è stato operaio in fabbrica, e ti porta nel triangolo di vie dove si picchiava col fratello, che si chiamava Gianni, ma è Manrico nel Fasciocomunista e nel film Mio fratello è figlio unico, interpretato da Riccardo Scamarcio mentre Elio Germano fa Antonio e sempre la gente s’affacciava: «Guarda, guarda: so’ i due fratelli che vanno a menasse». Famiglia contadina, la loro. Sette figli. A Latina con Pennacchi, t’imbatti in Filippo Cosignani, che sta qui in carne e ossa e in Camerata Neandertal, nel memorabile momento in cui il Federale Finestra impone le mani sullo scrittore in sedia a rotelle e gli dice: alzati e cammina. Pennacchi ricorda: «Finestra mi aveva espulso dal Msi nel ’67, perché avevo manifestato a favore del Vietnam. L’ultima volta, lo vidi qua in piazza, nel ’68. Io stavo con gli studenti, ce le demmo. Dopo trent’anni, scrivo Palude in cui lo piglio in giro e lui mi manda un biglietto: “Libro stupendo”. Abbiamo fatto pace». 
Lei era davvero rissoso come nei libri? 
«Mia madre diceva che non ero un attaccabrighe, ma un catabrighe. Catare, in veneto, significa trovare. Io uscivo e trovavo le brighe». 
La volta che ne prese di più? 
«A Trieste, da fascio. Sa Trieste libera, la Zona B? Mi ero portato due catene chiodate, ma i carabinieri menavano col fucile». 
La Cgil la espulse perché picchiava i capireparto. 
«Direi che fu perché adottavo forme di lotta che non ritenevano democratiche». 
Deduco che non si è pentito. 
«Senta: stavo nel Consiglio di fabbrica della Fulgorcavi, rispondevo agli operai che rappresentavo e facevo quello che dovevo fare». 
La volta che ne ha date di più? 
«Le ho sempre prese e ormai sono non violento. L’ultima volta, feci a botte quando m’iscrissi all’università a 40 anni. Oggi, sarei persino vegano, se non rimanessi un uomo del vecchio mondo uso a mangiare abbacchio». 
Come diventò comunista? 
«Finestra m’aveva cacciato, ma avevo 17 anni e l’anno dopo era il ’68. Se permette, sono andato dove facevano casino. Ho fatto tutta la trafila: movimento studentesco; marxisti e leninisti; poi, Servire il popolo; Psi, Pci, Cgil». 
È stato un buon operaio? 
«Sono stato un bravo sindacalista. Bravo operaio lo sono diventato. I primi anni, pensavo che la priorità fosse la lotta di classe». 
Oggi per chi vota? 
«Turandomi il naso, ho votato Leu. Però di là c’era ancora Matteo Renzi». 
Renzi non le piaceva? 
«Io considero uguali tutti gli esseri umani. Credo ci sia scintilla divina anche nel filo d’erba e identità sostanziale fra me, il filo d’erba, Matteo Renzi e persino Matteo Salvini». 
Che c’entra l’erba con Renzi e Salvini? 
«Tutto il bene e il male che c’è in me sta pure dentro di loro. L’avversario non è un mostro alieno. La sinistra non capisce che la gente va da Salvini non per cattiveria o razzismo, ma perché al banco del mercato lui avrà pure frutta pompata, ma il Pd ce l’ha fradicia. Successe lo stesso col biennio rosso: i socialisti non avevano fatto né rivoluzione né riforme e la gente andò da Mussolini. Invece, la storia scritta dai vincitori dice che lo seguirono costretti con la violenza, ma finché ce la raccontiamo così, non capiremo nulla dagli errori del passato». 
Le stanno simpatiche le Sardine? 
«Sono andato in piazza, sardina fra le sardine, perché sto dalla parte degli ultimi. So che le Sardine, come prima i 5 Stelle, sono il segno di una crisi, ma ormai ho 70 anni... Debbo solo raccontare le mie storie». 
Finito Canale Mussolini, disse che era il libro per cui era venuto al mondo e si chiese «e ora che campo a fare?». Che si è risposto? 
«Campo perché quella storia non è finita. Sto scrivendo il capitolo tre, ma va per conto suo e vuole diventare altro, e manca il quarto, che però ha il titolo: Declainendfoll, tutto attaccato e italianizzato da Decline and fall of the Romain Empire di Edward Gibbon. Il progetto è scrivere cent’anni di storia. Però lavoro per senso del dovere. In realtà, mi sono stufato». 
Perché mai? 
«Scrivere non mi piace. È una condanna. È come se quando sono nato mi fosse stato dato il compito di raccontare la mia famiglia, il podere, la nostra storia. Lo capii nel ’56, in prima elementare». 
E tuttavia inizia a scrivere solo a 36 anni. 
«Evitavo. Non volevo. Poi, è morto mio padre, forse fu quello». 
Ha detto che Canale Mussolini gliel’hanno dettato i morti: «Le voci mi arrivavano da dentro e a volte mi facevano piangere». 
«Ero come posseduto da percezioni extrasensoriali. I morti facevano avanti e indietro e mi dicevano cose. Morti di famiglia, morti mai conosciuti e Gianni che se n’era appena andato. Era squassante. Ma hanno smesso». 
In Camerata Neandertal scrive che la liberò un esorcismo. 
«Don Mario chiamò gli angeli e gl’intimò di tornare in cielo e lasciarmi stare. A me, ordinò di nascondere le foto dei miei morti. Prima di tutto di Gianni. Ora, non è che ci credo, non so come stanno le cose nell’aldilà... Insomma, non vorrei passare per scemo, ma è per dire che la mia opera è dare voce a chi non c’è più». 
Dice che non ha idea dell’aldilà, ma da bambino era felice di stare in seminario. 
«Volevo diventare santo, ma con la pubertà scoprii che mi piacevano le ragazze e lasciai. Oggi so solo che l’inferno è questo qua». 
Fu per le voci che andò in analisi? 
«No, fu per l’infarto dopo Palude. Mio fratello diceva che era psicosomatica, io dico che è il mio tributo alla scrittura. Ogni romanzo è un malanno: Mammut due ernie, Fasciocomunista secondo infarto e tre bypass, Canale Mussolini una vertebra rotta e barre di titanio nella schiena. Però, ci sono i libri di pancia o di testa. Con i saggi non mi succede niente». 
Adesso come sta? 
«Pensavo che Storia di Karel, essendo fantascienza, fosse un libro di testa. Ma sempre coloni erano e scavavano canali, conquistavano la terra... Insomma: sempre Latina è. Mi è venuta l’infiammazione del tunnel carpale, la mano duole e non posso più usare il bastone». 
Quanto le manca suo fratello? 
«Tanto. Era un testa di... Però era forte. Aveva un bel cervello. Forse, diventai comunista per sfidarlo sul suo campo. Era una sfida continua e lui era nato cocco di mamma». 
Sua madre la picchiava come nei libri? 
«Non mi ha mai capito. Era sempre “Gianni sì, Antonio invece...”. A volte, ancora mi chiedo chi sarei stato se mamma mi avesse voluto bene. Lasciamo perdere, va’». 
Mi racconti di sua moglie. 
«La vidi a un picchetto davanti a una fabbrica occupata, 45 anni fa. Le ragazze non volevano far passare un camion della ditta. Allora, il camion ingrana la marcia e parte. Tutte scappano, eccetto Ivana, che gli si butta davanti. Pensai: questa è la donna della vita mia». 
Quanto ci ha messo a conquistarla? 
«Parecchio: le parevo matto. Ma abbiamo tirato su, io e lei da soli, in dieci anni, la nostra casa. Abbiamo due figli e due nipoti che sono la mia gioia. Mi è stata vicina quando stavo in cassa integrazione e mi sono laureato e quando ho scritto Mammut e siamo andati con la 127 a lasciarlo a mano agli editori, a Milano». 
Ricevette 55 rifiuti. 
«Mi sono serviti per riscriverlo e imparare». 
Sua moglie le accende una luce in viso. 
«Mi toglie ogni ansia. A stare insieme s’impara. All’inizio, c’è la passione, poi devi creare le aderenze all’altro, rinunciare a parti di te». 
Lei a che ha rinunciato? 
«Io mi affido per ogni scelta a mia moglie». 

Che papà è stato? 
«Non lo so. Sono un buon nonno però». 
Come è fatto un buon nonno? 
«Deve essere amato dai nipoti». 
Le fa più paura invecchiare o morire?  
«Mi fa paura solo il dolore del mondo».