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 2020  febbraio 27 Giovedì calendario

Ricordi di Nanda Vigo

Varcata la porta d’ingresso lo spazio che si apre sembra il frammento di un’astronave di Star Trek nella giungla. Triangoli luminosi, superfici specchianti, luci bluette diffuse, piante esotiche e una grande voliera piena di uccelli, arredano la casa-studio di Nanda Vigo (1936). Laureata al Politecnico di Losanna, tra le più innovative e prolifiche artiste-designer italiane, Vigo ha la fertilità creativa di una ventenne. Testimone e protagonista della storia, la incontriamo per parlare del brillantissimo libro autobiografico che fa vibrare l’arte degli anni Sessanta con una vitalità sorprendente. Giovani e rivoluzionari (Mimesis, pp. 160, € 14) è un’immersione nelle vite complicate e nelle intuizioni dei gruppi artistici degli anni più avventurosi della Milano del secolo scorso. Compagna di Piero Manzoni (1933-1963), amica e collaboratrice di Lucio Fontana e Gio Ponti, esponente del Gruppo Zero, Nanda racconta i risvolti privati della storia ufficiale.
A sette anni davanti alla Casa del Fascio di Giuseppe Terragni a Como lei ha avuto una folgorazione, perché? 
«C’era tanto vetro-cemento, era un edificio ultramoderno. Sono capitata in una giornata di sole e c’erano tutte le rifrazioni che moltiplicavano, duplicavano, cambiavano i volumi dell’architettura. Ho scoperto la bellezza e la luce. Sono cose che ritieni nell’inconscio e in alcune circostanze sbucano fuori. Quando ho cominciato il liceo artistico ho capito che questa illuminazione avrebbe avuto un’influenza capitale sulla mia vita. Nella mia opera ho sempre cercato di amplificare e ri-prospettizzare situazioni di luce. Sin dal 1959 ho lavorato con acciaio, specchio e alluminio».
Ai tempi della sua relazione con Piero Manzoni, però, lei aveva da parte del suo compagno il divieto di fare l’artista.
«Sì, esatto. Era la vecchia storia borghese per cui la moglie doveva essere tale e basta. E poi al Piero scocciava che avessi contatti con troppa gente, ignorava deliberatamente il mio lavoro, non se ne discuteva neanche. In quel periodo stavo terminando la progettazione della Zero House, la casa di vetro. Era uno dei miei lavori importanti, ci tenevo molto. Avevo pensato a pareti nelle quali si potevano inserire due opere. Una l’ho fatta fare a Lucio Fontana e nell’altra volevo inserire lui. Era il periodo che aveva iniziato a fare le michette. Questa grande parete nella sala da pranzo era fantastica, misurava 6 metri per 4. Doveva essere una parete di panini. Siamo andati avanti mesi a parlarne, diceva che l’avrebbe fatta ma non era vero, non è neppure venuto a vedere la casa. Alla fine ho chiamato Castellani. Io ero follemente innamorata di Piero. Era il primo grande amore e cercavo di adeguarmi anche se non ero molto contenta. Alle volte scoppiavano grandi liti ed era solo per questo motivo. Una moglie per lui avrebbe dovuto stare a casa e fare figli».
Nonostante lui fosse un rivoluzionario nell’arte?
«Infatti, questo è il punto. Piero è un ossimoro. Voleva tenere i piedi in due scarpe».
A proposito delle michette dipinte di bianco, qual è l’autentica versione della loro nascita?
«Alberto Biasi sostiene di essere stato lui il primo a far fare i panini a Piero perché aveva organizzato una mostra. Tuttavia non è così. Io ero presente quando fece i panini per il panettiere del quartiere. Un giorno il panettiere, visto che Piero amava il pane, gli chiese di fargli un ritratto. Lui rimase un po’ sconcertato e disse che doveva pensarci, la sua faccia era molto imbarazzata. Evidentemente stava pensando "che cosa gli do?". Dopo qualche giorno fece un’opera con i panini e disse "ecco, il ritratto è questo". Il panettiere lo ringraziò ma era abbastanza sconvolto. Comunque di tanto in tanto gli dava gratis delle brioche e del pane». 
E la «merda d’artista» come nasce?
«Piero diceva che il collezionismo comprava solo cagate in quel periodo, quindi affermò: "Ci cago sopra. Punto e basta". Era tautologico, e comunque un concetto. I collezionisti non lo capirono al momento, e neanche gli artisti. C’è stata anche un’interpellanza parlamentare quando, post mortem, negli anni Settanta, fecero la mostra di Manzoni a Roma alla Galleria Nazionale. Venne fuori questo imbecille di parlamentare che s’era messo a discutere sul fatto che tutti sono capaci di fare la cacca, quindi siamo tutti artisti. Ma la cosa importante è stata l’idea, poi è finita lì». 
Com’erano gli incontri al bar Jamaica di Milano?
«Tra i vari gruppi c’erano dei razzismi mica da ridere. I figurativi andavano per i fatti loro, così gli informali avevano tutti i loro giri, le loro gallerie. Io avevo amici diversi perché frequentavo anche Remo Brindisi e Gio Ponti e per questo ero criticata. Lucio Fontana non faceva parte dei clan, lui era sopra, intoccabile. A Gio Ponti attribuivano, con grande disprezzo, l’orribile parolaccia di "eclettico". Non avevano ancora capito che il design, l’architettura, l’arte e altre discipline devono essere legate, costruite insieme come nel Cinquecento». 
Manzoni sapeva che avrebbe vissuto poco?
«No, ma è stata una sua scelta. Non ha mai voluto curarsi. Tutti lo vedevano prendere delle pastiglie che aveva in tasca e pensavano fossero chissà che cosa. Invece erano tavolette di Cebion . S’era messo in testa che quelle gli guarissero tutto». 
Vorrei concludere con una nota sul suo lavoro e dirle che le sue installazioni rendono straordinario il mondo ordinario.
«Il mio lavoro tende a essere già oltre, in posti dove l’uomo prima o poi arriverà. Penso esistano gli extraterrestri. Esistono non solo altri mondi ma altre galassie, esiste l’infinito. Ogni galassia ha i suoi soli e i suoi pianeti abitati da esseri a vari gradi di evoluzione: inferiore, medio e superiore rispetto a noi. Quello che affermano gli scienziati va sempre dietro a ciò che dicono gli artisti».