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 2020  febbraio 27 Giovedì calendario

Le vittime anziane non commuovono

Qui dove sto scrivendo, e cioè a venti chilometri da Vo’ che è uno dei focolai del virus, corre con un certo rilievo la notizia che nell’altro focolaio, Codogno, il contagio sta toccando anche i bambini, dai 5 ai 15 anni. 
Nei bar non si parla d’altro. Perché se la malattia comincia a toccare i bambini, allora è una cosa seria, da combattere con tutti i mezzi, senza badare ai costi. Si dice sempre che la mortalità dei contagiati sta fra l’1 e il 2 per cento, ma se comprende i bambini è come se aumentasse vertiginosamente. 
Questo mi fa piacere, è bello vivere in un popolo che protegge i piccoli, però se permettete mi deprime anche, perché i vecchi cosa sono? La mortalità tra gli ultraottantenni si aggira sul 14 per cento, ma è un dato che non si cita mai, nessuno lo conosce, lo conosco io perché mi riguarda. E allora mi chiedo: gli ottantenni non contano? Sono considerati già morti? Non hanno più importanza per la società, per la scienza, per la medicina, per la sanità, per l’informazione, per le famiglie? La loro vita è oggettivamente meno preziosa? È meno ricca di sentimento, di sensibilità, di preoccupazioni, di amore, di relazioni? 
Nego che ciò sia vero. I giornali e le televisioni che non lanciano e non rilanciano il dato che a morire per questo virus sono il 14 per cento degli ultraottantenni contagiati sbagliano. 
I vecchi sono importanti, oso dire più dei giovani, i molto vecchi più dei molto giovani. I molto giovani sono uno spazio da riempire, uno spazio in cui la storia di domani scaricherà materiali che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Chissà cosa ci sarà tra quei materiali. Amori, bassezze, viltà, eroismi, egoismi, onestà, menefreghismi, genialità, idiozie. Non sappiamo. 
Il nostro amore per i bambini è un amore cieco. Li amiamo a prescindere. Ma i nostri sentimenti per i vecchi non sono ciechi. Riusciti o falliti che siano, i vecchi hanno vissuto, e sono pieni di esperienze. Trattandoli con rispetto e con stima, noi rispettiamo e stimiamo le loro esperienze. Sono fragili, sono preziosi, sono antiquariato. Sono insostituibili. Un vaso nuovo, se lo rompi, ne prendi un altro tale e quale, ma un vaso antico non lo trovi più. 
Perciò dico: è un medico indegno o cialtrone quello che dà poca o minore importanza ai pazienti vecchi, e vecchi vuol dire più di anziani. Ci fu una volta un medico disonesto, un ortopedico che impiantava protesi difettose, che producevano infezioni, malattie e perfino morte. Lui se ne fregava, a lui costavano poco, se le faceva pagare molto, lucrava sula differenza, e sperava di continuare all’infinito. La malattia non era un problema. La morte era un problema. Siccome i pazienti erano anziani, sopra i sessant’anni o settanta, lui quando uno moriva se lo scrollava di dosso con una battuta: «E quanti anni voleva vivere, novanta?».
Rispondo io: sì, certo, novanta e più, perché no? La vita è vita finché è vissuta in attesa di altra vita, quando è in attesa della morte fa parte della morte, è morte anticipata. Erano i filosofi esistenzialisti che vivevano «in attesa della morte», e battezzavano questo tempo fuori della vita in latino, in greco e in tedesco. Io sto pensando alla gente comune, come voi, come me, gente per la quale vivere significa essere vivo, e se sei vivo sei pieno di tutti gli infiniti doni della vita, compresi i litigi, le incomprensioni, i tradimenti, i perdoni, i ritorni, che tu abbia dieci anni o venti o ottanta. 
Morire vuol sempre dire addio a tutto, e non è vero che il tutto a cui dai l’addio sia più vasto a vent’anni che a ottanta, e che perciò la morte di un ventenne sia una morte completa, mentre a ottanta muore solo quella porzioncina di vita che ancora resta. 
La morte è sempre una perdita totale, uno di noi se ne va totalmente e per sempre, e piangendo su di lui noi in realtà piangiamo su di noi, sulla nostra fine. Non vorremmo mai che avvenisse. Ci sembra sempre che il tempo che abbiamo da vivere contenga ancora tutto. Una volta nati, vorremmo essere nati per sempre, non per alcuni anni.
Siamo tutti collegati, viventi con viventi, e ci sentiamo in pericolo se qualcuno comincia ad escludere qualcun altro, perché è malato, perché è scemo, perché è povero. O perché è vecchio. Non è che se qualcuno muore vecchio, non suona la campana. La campana suona comunque, perché suona per coloro che restano. È dunque se c’è questo 14 per cento di ultraottantenni che se contagiati se ne vanno, smettiamola di ignorarli. Perché imbrogliamo noi, non loro.