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 2020  febbraio 27 Giovedì calendario

La messa social del patriarca di Venezia

VENEZIA «Una città che batte con il cuore rallentato», dice il patriarca di Venezia. La Chiesa al tempo del coronavirus ritorna agli strumenti di una volta (radio e tv) e a quelli nuovi (social): ieri monsignor Francesco Moraglia ha celebrato la messa, diffusa via etere, nella basilica di San Marco deserta, prima di uscire per la benedizione alla città a San Marco.
Patriarca, la messa sul web è il simbolo della Chiesa che non si arrende alla situazione di emergenza che vieta le celebrazioni con i fedeli, ma serpeggia anche una sensazione di smarrimento. 
«Abbiamo utilizzato i mezzi moderni per raggiungere le persone che si sentono smarrite. Ho subito cercato di far presente la difficoltà che comportava questa restrizione in una settimana molto significativa per la comunità ecclesiale. Questa sera (ieri, ndr) ho celebrato in un clima surreale, alzavo lo sguardo e trovavo le panche vuote». 
Qualcuno ha fatto emergere la contraddizione tra le messe sospese e le palestre e i mercati aperti. Pensa si possa superare questo divieto? 
«È un tema che ho già affrontato con il governatore Zaia, sempre collaborativo e capace di comprendere il nostro disagio. Dipenderà molto dai numeri dei contagiati ma è necessario che si trovino dei momenti in cui la comunità ecclesiale a livello di parrocchie e di unità pastorale possa pregare assieme. Non penso che le messe feriali ad esempio, visto la frequentazione non eccessiva, possano rappresentare un problema. Troviamo delle regole di partecipazione comune: il numero di persone, delle messe, i presidi igienici alle porte delle chiese. È di difficile comprensione vedere mercati, palestre, piscine, anch’essi luogo di incontro e di aggregazione, aperte e le messe sospese. Per questo a nome della Conferenza episcopale del Triveneto chiederò che da lunedì prossimo ci siano delle possibilità di preghiera comune». 
Venezia è deserta, i vaporetti sono vuoti, i turisti sono sfuggiti, i matrimoni vengono rinviati... 
«La paura è qualcosa che appartiene all’uomo, è anche un istinto di difesa, il risultato di un modo di percepire la realtà da parte dei singoli. Ma dobbiamo dire no alla paura, no agli allarmismi, sì a una prudenza che possa essere costruttiva».
Nella sua lettera per la Quaresima ha scritto che l’emergenza ha fatto emergere la fragilità dell’uomo. 
«Il messaggio “utile” di questa situazione è farci tornare in noi stessi e far toccare con mano che la fragilità è una dimensione strutturale dell’uomo. Questa emergenza fa riemergere il paradigma di vulnerabilità, quella delle epidemie, che sembrava ormai sotterrata dalla polvere dei secoli. Posso citare la frase dell’Ecclesiaste: niente di nuovo sotto il sole. L’uomo torna ad essere quell’essere creaturale che dovrebbe chiedersi il perché delle cose mentre molte volte si domanda come può conseguirle. Ieri sera ho fatto suonare tutte le campane della diocesi come segno di speranza per il futuro e per ricordare che il cristiano è cittadino di questa terra ma se guardasse più spesso al cielo potrebbe gestire meglio la realtà che sta vivendo».
L’emergenza ha cambiato le sue abitudini?
«In modo radicale. L’agenda è stata azzerata fino a domenica, è stato sospeso il ritiro con i vescovi, gli incontri e tutti gli impegni, come se ci fosse stato un terremoto. Ma si lavora ancor più di prima: il pomeriggio l’ho passato a parlare con i vescovi e i sacerdoti per cercare modi per essere vicini ai fedeli, le messe sul web sono una soluzione».