il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2020
Quegli scienziati americani assoldati da Pechino
Non fosse stato per l’epidemia del Coronavirus, la città cinese di Wuhan sarebbe diventata famosa per un’altra notizia: l’arresto di un famoso professore di Harvard esperto di nanotecnologie, Charles Lieber, che lavorava anche per la Wuhan University of Technology. L’indagine dell’Fbi ha fatto deflagrare un problema imbarazzante per la Casa Bianca di Donald Trump, impegnata in una guerra commerciale e tecnologica contro Pechino: scienziati americani attingono a milioni di dollari di finanziamenti erogati dal governo americano per la ricerca di base, anche in settori strategici come quello della difesa o dell’intelligenza artificiale, e poi vendono i risultati delle loro ricerche al governo cinese che le usa per competere contro gli Stati Uniti. È un fallimento completo del sistema americano: gli Stati Uniti finanziano l’ascesa tecnologica del loro principale avversario, la Cina governata da Xi Jinping. Trump minaccia i governi occidentali che, come quelli di Berlino e Londra, si affidano alla cinese Huawei per la tecnologia 5G, ma intanto i suoi ricercatori sono a libro paga di Pechino.
Ai tempi della Guerra fredda certe cose si facevano di nascosto. L’alto funzionario del ministero del Tesoro Usa, Harry Dexter White, l’architetto del sistema finanziario di Bretton Woods che ha governato l’economia mondiale nel Dopoguerra, collaborava con l’Unione Sovietica, ma di nascosto. Ora tutto accade alla luce del sole, o quasi: nel 2008 la Cina ha lanciato il piano “Mille talenti” che si pone l’esplicito obiettivo di reclutare scienziati affermati nel mondo per usare le loro conoscenze. Secondo i dati di Pechino, nel 2017 erano oltre 7.000 gli scienziati reclutati. Quale sia l’obiettivo ultimo del programma lo ha chiarito lo stesso leader supremo, il presidente Xi, nel 2016, quando ha stabilito come priorità del Paese la “fusione militare-civile” delle tecnologie, cioè l’abbattimento delle barriere tra ricerca accademica e industria della difesa in Cina.
I primi bersagli del piano “Mille talenti” sono gli studenti cinesi che vanno a studiare all’estero. Molti di loro probabilmente vorrebbero rimanere negli Stati Uniti o in Gran Bretagna e sfruttare le opportunità che una carriera occidentale offre, ma il governo di Pechino sa essere molto persuasivo nel convincerli a tornare, specie se hanno ancora parenti in Cina. E così nel 2018 sono andati all’estero 662.110 studenti e ne sono tornati 480.900, un tasso di ritorno del 78 per cento. Nel 1987 era del 5 per cento, nel 2007 era soltanto del 30,6. Ma il bersaglio grosso sono gli scienziati americani e, soprattutto, i fondi per la ricerca erogati dal governo federale.
Ogni anno i contribuenti americani con le loro tasse finanziano la ricerca per la considerevole cifra di 150 miliardi di dollari. Il solo National Institute of Health (Nih) eroga 31 miliardi di dollari per la ricerca di base, soprattutto in campo farmaceutico. Ma ci sono decine di altre agenzie federali che gestiscono budget miliardari dai quali dipendono dipartimenti di eccellenza di tutte le grandi università americane. Nessuna di queste agenzie è stata in grado di prevenire le infiltrazioni di potenze straniere che possono appropriarsi di scoperte e ricerche finanziate dal governo Usa, come ha riconosciuto la commissione di inchiesta per la Sicurezza nazionale del Senato guidata dal Repubblicano Rob Portman.
In alcuni casi lo spionaggio segue dinamiche tradizionali. Yanqing Ye, 30 anni, è una sergente dell’esercito cinese che però è riuscita a entrare negli Stati Uniti con un visto da studente per fare ricerca al dipartimento di Fisica e Chimica della Boston University, grazie a una borsa di studio del Chinese Scholarship Council. Secondo le carte giudiziarie dell’Fbi, che l’ha arrestata tre settimane fa, l’11 aprile 2019 Ye riceveva istruzioni da un altro militare cinese attraverso il social network WeChat su come procurarsi informazioni su un programma per decifrare codici militari: “Vedi se possiamo trovare progetti (…) sponsorizzati dall’esercito Usa”. In quei giorni Yanqing Ye stava collaborando con un professore del Naval Postgraduate School at Monterey, in California, che si occupa di sicurezza informatica.
Il caso di Charles Lieber di Harvard è molto diverso. Nel 2011 viene invitato a partecipare al “Forum sui materiali nano-energetici” organizzato dall’Università di Wuhan, in Cina (Wut). Dietro quell’invito c’è già un accordo preciso: Lieber viene nominato strategic scientist dell’Università di Wuhan per cinque anni. Non c’è nulla di nascosto, viene addirittura creato un sito web del “Wut-Harvard Joint Nano Key Laboratory” di cui Lieber risulta il laboratory director. Oggi Harvard dice che Lieber si è mosso da solo, violando le regole dell università.
Ma non ci voleva l’Fbi per scoprire cosa stava combinando, bastava Google.
Lavorare con i cinesi per Lieber, già molto ben pagato ad Harvard, è un affare allettante: l’Università di Wuhan gli offre 50.000 dollari al mese, un contributo alle spese per quando è in Cina di 158.000 euro annui, più 1,74 milioni di dollari di budget per le ricerche nel laboratorio Harvard-Wut. Il professore americano doveva aver chiaro che quello che stava facendo non era proprio lecito, visto che nel 2014 chiede all’amministrazione di Wuhan di pagargli metà delle somme su un conto corrente in una banca cinese e di dargli l’altra metà in contanti (così da aggirare anche il fisco americano, si immagina). Harvard sa tutto almeno dal 2014 e chiede a Lieber di togliere il nome dell’ateneo dal laboratorio cinese. Nel febbraio 2015, oltre quattro anni dopo l’inizio del suo contratto, il professor Lieber scrive ai suoi referenti cinesi una email per sottolineare (per la prima volta) che “l’accordo di ricerca è tra l’Università di Wuhan e me e non costituisce un accordo con Harvard”. Per altri cinque anni, però, Harvard lascia che un suo professore che gestisce fondi di ricerca pubblici per milioni di dollari vada poi a condividere questi risultati con una potenza straniera.
Alla fine Lieber viene arrestato dall’Fbi per aver mentito agli inviati del National Health Institute e del Dipartimento della Difesa che devono verificare se i beneficiari dei finanziamenti pubblici rispettano i criteri dei bandi, tra i quali c’è l’obbligo di dichiarare se si ricevono somme significative (sopra i 5.000 dollari) da soggetti che possono entrare in conflitto con lo scopo dei finanziamenti. Tipo una potenza straniera che vuole impossessarsi di tecnologie strategiche per gli Stati Uniti: molti dei contratti firmati dagli scienziati del programma “Mille talenti” prevedono che praticamente tutto quello che questi ricercatori fanno in Cina diventi proprietà del governo di Pechino. E spesso i contratti del programma “Mille talenti” replicano, negli obiettivi di ricerca, quelli che gli scienziati hanno con le loro università americane. Così la Cina è sicura di potersi appropriare di ogni loro risultato, ovunque sia stato conseguito.
Il caso di Lieber è il più clamoroso, ma è tutt’altro che isolato. Secondo quanto riportato da Bloomberg, al Moffitt Cancer Temper di Tampa, in Florida, un ricercatore ha ricevuto 300.000 dollari all’anno dall’Università di Tianjin che gli ha anche pagato parte del prezzo di un appartamento in Cina. Al centro di ricerca sul cancro dell’Università del Texas uno degli scienziati di punta, Zhimin Lu, aveva anche un secondo lavoro a Qingdao, con un budget da 14 milioni. Il dipartimento dell’Energia del governo finanzia 35.000 ricercatori, 10.000 di questi sono cinesi. Quelli che sono entrati nel programma “Mille talenti” sono parecchi: uno di questi – si legge nel rapporto della commissione d’inchiesta del Senato –, ha trafugato 30.000 file dal National Lab prima di tornare in Cina e usarli per costruirsi una nuova e redditizia carriera.
“La natura aperta e collaborativa dell’ambiente accademico statunitense produce ricerca avanzata e tecnologia d’avanguardia, ma espone anche le nostre università al rischio di essere sfruttate dagli avversari degli Stati Uniti per raggiungere i loro obiettivi economici, scientifici e militari”, ha detto in Senato John Brown, numero due del controspionaggio dell’Fbi. Arginare la pirateria intellettuale della Cina senza compromettere il dinamismo delle università Usa e la loro capacità di attrarre talenti è una missione quasi impossibile. E la Cina rischia di vincere qualunque sia l’esito: o si impossessa di ricerche che mai avrebbe potuto produrre in modo onesto o vede il suo principale rivale sabotare il proprio modello di crescita alimentato dalla conoscenza.